Dossier Steven Spielberg / 15 - Salvate il soldato Ryan
Le storie degli uomini dietro il D-Day
Probabilmente è vero che il cinema di Steven Spielberg, benché dominato da una grande coerenza tematica e stilistica, è divaricabile in due binari chiaramente distinguibili, sintetizzabili attraverso due elementi: la terra e il cielo. Di quest’ultimo fanno parte senza dubbio capolavori quali Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T., film nei quali lo sguardo verso l’orizzonte si fa elemento salvifico, rilancio dialogico con l’altro da sé, alla ricerca prima di tutto di accoglienza, ma anche di uno punto di vista nuovo in grado di ritrovare il meraviglioso (mondo) perduto.
Salvate il soldato Ryan è invece un film legato all’altro filone, quello in cui Spielberg mette la macchina da presa in terra per mostrarci un mondo fatto di brutale realtà, seppur senza mai rinunciare al maieutico ruolo del suo cinema. Collante fondamentale di questa parte della sua filmografia è la Storia, in particolare quella del secolo scorso, con la quale l’autore si rapporta adottando al medesimo tempo sia un approccio di tipo documentaristico/filologico, sia uno di carattere maggiormente interpretativo, che spesso finisce per cambiare le carte in tavola pur di raggiungere un obiettivo superiore.
Per questa ragione non di rado, sebbene in una cornice di radicale realismo, la Storia finisce per essere trasfigurata per riuscire ad essere realmente raccontata. La domanda da cui partono film come Schindler’s List, Amistad, Salvate il soldato Ryan, Munich, Lincoln e l’ultimo Il ponte delle spie è dunque: cosa vuol dire raccontare la Storia? Salvate il soldato Ryan – come del resto anche gli altri titoli citati – ci dice che l’unico modo di rappresentare la Storia, di coglierne l’anima attraverso il racconto, non è la descrizione, bensì il prelievo di storie “minori” (le virgolette sono d’obbligo), la cui portata biografica trasuda di un potere sineddotico tale da rendere comprensibile il senso profondo del periodo storico che si vuole raccontare.
La potenza della narrazione storica spielberghiana allora risiede proprio nell’equilibrio tra la precisione della ricostruzione e il calore degli uomini che la popolano, tra la cerebrale perizia tecnica e il cuore che caratterizza la componente più sensibile degli individui raccontati.
Assume quindi un’importanza imprescindibile la lunga sequenza nel finale della battaglia al ponte, dove tutto i personaggi che nella prima parte del film abbiamo imparato a conoscere in maniera graduale e sempre più dettagliata, arrivano a un momento di svolta cruciale del proprio arco drammatico. A cominciare da Ryan, che trovatosi nella difficile situazione di non poter mai davvero uscire allo scoperto per non vanificare lo sforzo di uomini che hanno combattuto e perso amici pur di ritrovarlo, capisce realmente quanto quella bellica sia una situazione in grado di far uscire anche la parte migliore degli uomini e non solo quella più deteriore. La lunga sequenza è anche il momento in cui Spielberg mette in scena una delle immagini più crude del film, con la morte del soldato ebreo mostrata dopo un corpo a corpo in cui questi, nonostante all’inizio sembri poter prevalere contro un tedesco, subisce impotente tutta la supremazia fisica dell’avversario, vedendosi inerme chiedere aiuto mentre il suo assassino nazista gli infila il coltello nel cuore. Poche cose al cinema hanno reso meglio l’arroganza e la spietatezza dell’Olocausto come questa scena, al posto della quale sarebbe stato molto più comodo e semplice girarne una dall’esito opposto, a mo’ di riscatto del Cinema sulla Storia (cosa che avrebbe poi fatto Tarantino, con tutt’altro stile), ma di sicuro meno coraggioso.
La potenza umanista del cinema del regista di L’impero del sole sta anche nel riuscire a fare un discorso sull’uomo e sulla donna pur all’interno di un genere prettamente maschile come quello bellico.
Se la sequenza appena menzionata è così potente lo si deve anche al fatto che è anticipata da un’altra lunga sezione altrettanto importante, meno dinamica ma nettamente più riflessiva. Sulle note di Edith Piaf i soldati tra le macerie si fermano a riflettere su ciò che hanno lasciato dall’altra parte dell’oceano, rilanciando un’idea di famiglia tutt’altro che idealizzata ma ad ogni modo essenziale alla loro missione. Le donne raccontate, in particolare, rappresentano non solo la fornace sentimentale alle spalle della luce di cui brillano i loro occhi feriti, ma anche quelle figure di madri, mogli, figlie, insegnanti e in generale maestre di vita senza le quali questi soldati sarebbero infinitamente peggiori, oltre che totalmente alla deriva. Come la moglie di Tom Hanks, unico barlume in un mondo fatto di sangue e violenza, cattedrale nel deserto da cui ritornare, figura così preziosa da rimanere custodita nel cuore del protagonista, senza mai diventare ricordo condiviso. Sono donne, quelle di Spielberg, per cui non sono mai abbastanza la devozione e il rispetto, tanto che ad ogni fotogramma che le vede presenti risulta lampante quell’eredità fordiana che vede il genere femminile come elemento essenziale nella corsa alla civiltà, tanto quanto quello maschile lo è nella caccia alla natura selvaggia. Non si può infatti non rimanere a bocca aperta nel vedere la madre di Ryan che apre la porta e la macchina da presa dell’autore che citando Sentieri selvaggi la mostra come figura limite tra il dentro e il fuori, tra ciò che è conquistato e ciò che è tutto da scoprire e/o da temere.
Se il cinema di John Ford è la maggiore fonte di ispirazione per Spielberg, ciò non emerge solo dalle sequenze dedicate alla dialettica tame/wild, ma anche alla potenza visiva dovuta a un uso della tecnica davvero fuori dal comune, talento che il film di guerra esalta in maniera esponenziale. I primi venticinque minuti rappresentano infatti una delle vette del genere senza se e senza ma, riuscendo a mettere lo spettatore al centro di un evento storico così problematico e al contempo così necessario come lo sbarco in Normandia. É il rapporto tra grande e piccolo a scatenare quella sensazione di verità che emerge dalle immagini del cinema del regista, il confronto tra storie intime e altre universali, tra la paura del singolo e la responsabilità di un popolo, o meglio ancora di una cultura, quella democratica.
Ciò che ci lascia Salvate il soldato Ryan è anche – se non soprattutto – il messaggio che la Storia di un paese è la somma di storie di grandi uomini sommata alla capacità di altri, altrettanto monumentali, che hanno il dono di saperla raccontare. Quella capacità di rendere simbolico il quotidiano, come succede riguardo all’estremo saluto che il capitano Miller dà al soldato Ryan, ovvero quel “earn it” (“guadagnatelo”) sussurrato nell’orecchio che rimbomba forte proprio per la sua capacità di estendersi a un’intera generazione, quella garantita dai veterani del Secondo Conflitto Mondiale.
Proprio qui allora sta il senso della cornice che circonda il film, l’importanza delle croci al cimitero e il lavoro sull’angolazione con cui vengono mostrate nel finale che le posiziona in progressione verso le linee di fuga dell’immagine. Senza dimenticare, naturalmente, quella bandiera a stelle e strisce che segna un rapporto stretto tra una nazione e i suoi uomini e che nell’epilogo, nonostante la vita “guadagnata” da Ryan, non può che diventare un araldo nero che si accascia e si dissolve nel buio della memoria.