Dossier Steven Spielberg / 19 - The Terminal
The Terminal rappresenta una tappa fondamentale nella fase costituente del cinema spielberghiano
Lo si diceva in occasione della copertina dedicata ad Il ponte delle spie: The Terminal rappresenta una tappa fondamentale nella fase costituente del cinema spielberghiano. La scelta del set, in effetti, lascia pensare ad una sfida giocata sul terreno della privazione, della limitazione forzata in uno spazio neutro e militarizzato da piegare alle esigenze dello spettacolo e a quelle personali e umane dell’individuo Victor Navorski (Tom Hanks). La sfida consiste, banalmente, nel rendere abitabile un luogo destinato al transito (dove per abitabile si intende anche in senso cinematografico). Si parte da un gate riconvertito in appartamento, con tanto di letto e frigorifero. Poi la conquista territoriale si estende altrove, approdando nei cantieri o facendo di uno spazio abbandonato esso stesso il cantiere per il set di un film romantico. Anche gli oggetti e le azioni più banali cambiano di segno: i carrelli per trasportare i bagagli possono diventare una prima fonte di guadagno, mentre l’ufficio dei visti, una sorta di lasciapassare per la mensa. Eppure, per quanti sforzi faccia il nostro protagonista, c’è sempre un’entità superiore che lo controlla dall’alto e che ne stabilisce il destino. Stiamo parlando del direttore dell’aeroporto (Stanley Tucci), piccolo uomo ossessionato dalle regole, che dalla sua postazione privilegiata (riconducibile alla scritta borders), simile ad una cabina di regia televisiva, vede ogni cosa. Egli è, nei confronti di Navorski, una sorta di Dio tanto quanto lo era Christof nei confronti di Truman nel capolavoro di Peter Weir e Andrew Niccol (non a caso sceneggiatore di entrambi i film). L’unica sostanziale differenza tra i due sta nell’investimento sentimentale e soprattutto nel guadagno. Il direttore dell’aeroporto, in fondo, non ha alcun interesse da far valere. Vi è nel suo caso un’adesione totale (ma fraintesa) al ruolo, che lo porta a rivendicare costantemente una posizione dominante sugli altri, che si esercita per mezzo delle camere a circuito chiuso, disseminate dappertutto, e dal manuale delle regole. Regole che in alcuni frangenti cerca lui per primo di superare, attraverso piccoli stratagemmi, al fine di liberarsi della scheggia impazzita Navorski, uomo senza identità incappato suo malgrado in un vuoto legislativo e per questo condannato a vivere nel limbo dell’aeroporto. E’ proprio la sua natura “eccezionale” a minacciare l’ordine costituito, in quanto fuori da qualsiasi logica normativa, egli costringe il sistema a verificare la tenuta delle proprie leggi, la sua capacità di sapersi adeguare al contesto e alle situazioni, di potersi misurare con l’imprevisto. Ecco che si ripropone, in una forma diremmo astratta e assolutamente teorica, il caso di studio de Il ponte delle Spie: quando è lecito esulare dal manuale delle regole? La risposta ce la forniscono Navorski e il commissario generale. Il primo, quando riesce a far liberare il cittadino russo con l’ausilio di un piccolo artificio. Il secondo, poco dopo l’accaduto, quando spiega al direttore dell’aeroporto quale sia stato l’errore nella gestione di quella situazione di crisi:
Commissario: Non la vedo bene Frank.
Direttore: Io stavo soltanto seguendo le regole.
Commissario: A volte bisogna glissare sulle regole ed ignorare le cifre e concentrarsi sulle persone.
Direttore: Sulle persone, si lo so…
Commissario: Le persone, la tolleranza sono il fondamento di questo paese. Potresti imparare qualcosa da Navorski.
In sostanza, proprio come ne Il ponte delle spie, la trasgressione delle regole è possibile a patto di non tradire lo spirito che le sottende e le ha prodotte. E sempre come nell’ultimo straordinario film di Spielberg è Tom Hanks a vestire i panni dell’uomo etico, qui con una forza per certi versi ancora maggiore, perché inconsapevole, cioè non dettata dal ruolo né tantomeno dalla propria formazione. Anzi, Navorski non è neanche un cittadino americano. Semplicemente agisce seguendo un principio di umanità. E sarà proprio questo a farne una sorta di leggenda dell’aeroporto (grazie anche alle capacità affabulatorie dell’addetto alle pulizie indiano), e poi a permettergli di poter finalmente varcare, nel pre-finale, le porte che lo dividono dall’America. Proprio come un novello Truman, sebbene con l’aiuto decisivo di tutta la comunità, che accompagna e supporta questo “ritorno alla vita”, fuori dall’impasse dell’attesa e fuori dal controllo dei dispositivi. In effetti potremmo definire The Terminal come il controcampo etico-civico del reality metafisico di The Truman Show. Quello che è in gioco qui non è il “ruolo” del soggetto nei confronti del proprio destino, ma la posizione dell’individuo in relazione alle leggi che strutturano la vita comunitaria. Ecco allora che basta un pretesto apparentemente minimo, innocuo, come l’autografo di un jazzista, a spingere l’uomo a compiere fino in fondo il suo viaggio, a rimanere fermo sulle proprie posizioni. Non c’è bisogno di grandi domande, ancora una volta si vive e si agisce nel nome del padre, a sua volta custode di una memoria da portare avanti e da conservare gelosamente.