Dossier Steven Spielberg / 24 - War Horse
Nell’Odissea di un cavallo che percorre la Storia per farsi leggenda, Steven Spielberg realizza un film sull’atto stesso di fare cinema.
Un’orfana di guerra riflessa nell’occhio languido di un cavallo, due fratelli disertori alla ricerca di una nuova vita, un padre che affoga nell’alcool i suoi più foschi ricordi, una madre che guarda all’orizzonte in attesa di veder tornare l’amato figliolo. In mezzo, guerra e affetti, tragedie e delizie quotidiane, imprese e supplizi che temprano l’animo del nuovo eroe. E prima ancora delle tante, tantissime comparse umane che sfilano, vivono e muoiono in War Horse, un cavallo vede, sente e soffre il mondo, perché non bisogna essere uomini per amare, sognare e compatire, non bisogna conoscere il significato delle cose per poter davvero vivere. Il cavallo è nel mondo, la sua corsa è la tra le pieghe della Storia, i suoi proprietari sono soldati e bambine: passa di mano in mano, cavalca di sguardo in sguardo, testimone di campi infuocati, atti di coraggio e piccole gentilezze quotidiane. Bisogna forse tornare a casa, al ricordo vago ma saldissimo degli antichi splendori. Bisogna tornare al cinema che amavamo da bambini.
E al west.
La grande parabola del ritorno si scioglie nell’eco rossastra di un tramonto fordiano. Racconto, mito, archetipo, non fa più differenza: tutto riappare alla luce fastosa del cinema dei Padri. Campi lunghi che incorniciano silhouettes malinconiche e fuori tempo, spettri soavi di quel dying of the light sempre in agguato e sempre ritornante, che è già stato e che ancora sarà. Ciò che rimane del cinema non è l’omaggio al più immortale dei finali (Sentieri Selvaggi), ma l’ancora del tempo, lo sguardo scolpito, la visione di un bambino che sognava di fare film.
War Horse è un prodigio d’infantilità, ingenuità, purezza e sincerità. Un film che è una lettera a cuore aperto nei confronti di tutte quelle gioconde infatuazioni che ci facevano stupire di un’immagine o di una storia. Una prima, incerta cavalcata, il volto di una ragazzina tenace che disobbedisce al nonno, la sfida impossibile contro lo squallido riccone del villaggio: a Steven Spielberg non serve altro, i suoi occhi sono quelli del cantore, la sua tempra è quella del mito, il suo viaggio tra le immagini è quello dell’avventuriero.
Tutto il cinema classico, tutta la Hollywood dei tempi che furono, ritorna a nuova vita, balugina come grana di luce tra le nuvole digitali. War Horse è un passato sempre presente, un ricordo vivente, l’immagine vivificante di ciò che eravamo e di ciò che non potremo mai perdere: il miracolo della luce, la fede cieca e incrollabile nei confronti di un mondo perduto, la consapevolezza che siamo, siamo stati e saremo qui per amare e prenderci cura dell’altro.
Steven Spielberg firma, una volta per tutte, il film sul (suo) cinema: War Horse, contro ogni aspettativa, è la storia di uno sguardo che resiste al tempo, di una fiducia negli uomini che sospendono momentaneamente la guerra per salvare un animale (la magnifica sequenza con i due soldati nemici che mettono da parte le rivalità per liberare il cavallo dal filo spinato). E’ ancora una volta la cura il centro nevralgico del cinema spielberghiano. Amare l’altro, coltivarlo, ammirarlo, vivere con lui, credere in lui, fare dell’ignoto un mondo privato…colmare la distanza tra uomini e animali-alieni, subire assieme i dolori del mondo, compatirli, percepire le distanze e superare infine gli affanni.
Nell’incompreso War Horse, Spielberg rappresenta la sua idea cinematografica più nuda e cruda: non c’è paesaggio che non pulsi di vita, non c’è volto, per quanto ruvido o dissestato, che non sia pregno d’amore. Ogni inquadratura dà voce a un gesto cinematografico precisissimo, che è quello di un grande romanzo d’immagini, di una letteratura visiva sempre pronta a declinare il mito.
Esattamente quarant’anni dopo Duel, Spielberg torna alle basi essenziali della narrazione, alla semplicità di una grande avventura, alla potenza di un archetipo con cui far vibrare lo schermo. Egli è interessato al momento stesso in cui l’epica nasce e si fa meraviglia, alle emozioni come incandescenze visive, come improvvise, abbaglianti esplosioni di luce. War Horse, prima ancora che un film su un cavallo, è la visione incantata del dodicenne che girava in 8 mm The Last Gun, del cinefilo che filmava due treni giocattolo che si scontravano mentre sognava la grandezza dei film di David Lean. War Horse è il cinema dei grandi spazi, è l’atto d’amore nei confronti dei western che non ci sono più, è il gioco stesso del far cinema nelle trincee, è la liberazione di un dispositivo dalle grinfie della guerra: la corsa del cavallo che scappa dalle bombe non è un banale manifesto pacifista, ma una dichiarazione di totale, imprescindibile libertà cinematografica. L’odissea del cavallo non può che terminare con un tentativo di sfuggire alla Storia e al tempo, per consacrarsi finalmente quale leggenda, icona.
Come se, all’improvviso, avesse dimenticato le atmosfere cupissime di Minority Report o Munich, Spielberg ritorna il giovane, intraprendente regista che non vuole far altro che filmare i suoi sogni, le sue visioni incantate, divertendosi un mondo a far regredire il cinema ben oltre l’infanzia. Il classicismo di Spielberg non è la banale e refrattaria mummificazione di un intero immaginario, è un atto di fede verso i miti su cui si è fondata la nostra immaginazione e il suo paese. E come il più grande degli affabulatori, Spielberg racconta una storia che abbiamo già letto, già visto mille volte, ma che continua ad emozionarci come se fosse la prima.
Il segreto, in fondo, è tutto lì.