Soap Opera

Alessandro Genovesi porta in apertura del Festival di Roma il suo miglior film. Non convince del tutto ma regala alcune belle sorprese

Tentativo sincero di internazionalizzare la commedia italiana, o furbo camuffamento di schemi a lungo abusati, appena nascosti da un velo di tiepido formalismo? Comunque la si veda, arrivato al suo terzo film da regista Alessandro Genovesi continua ad interrogarsi e a lavorare sulla forma della nostra comicità cinematografica, che al netto dei risultati discutibili trova comunque in lui un indubbio agente di svecchiamento. Nel suo dittico iniziale – composto da La peggior settimana della mia vita ed il sequel Il peggior Natale della mia vita – era infatti evidente un primo tentativo di ripulire la commedia nostrana da macchiette regionali e volgarità scatologiche a favore di un più sobrio modello internazionale. Non a caso il diretto referente del protagonista e co-sceneggiatore Fabio De Luigi era il Ben Stiller più goffo e distruttivo di Ti presento i miei (a sua nato dall’irresistibile Peter Sellers di Hollywood Party). Da simili intenzioni nasce Soap Opera, film evidentemente più personale dei due precedenti e con il quale Genovesi cerca di alzare il tiro, raccontando una storia corale dal sapore dolceamaro condotta all’interno di una cornice teatrale barocca e favolistica.

Omen nomen, Soap Opera cala i suoi protagonisti in una dimensione artificiosamente melodrammatica, dove intrecci amorosi e gravidanze inaspettate fanno il paio con suicidi ed indagini poliziesche. Qui telefoni cellulari e computer convivono con auto e vestiti d’epoca, fuori cade imperterrita una neve artificiale mentre i protagonisti continuano a riunirsi in fittizi interni teatrali, a partire dalla palazzina che li raccoglie tutti per la maggior parte del film. La presenza del set del resto viene ostentata fin dai titoli di testa, costruiti su una brillante inquadratura frontale di una sezione trasversale dell’abitazione, evidentemente ricostruita in studio. Al contrario di tanto cinema italiano affamato di spazi aperti ed esterni, Soap Opera preferisce rinchiudersi in sé stesso, flirta apertamente con la finzione e forza l’artigianalità del set, alla quale fa corrispondere la cifra irrealistica e posticcia della narrazione. Ed è quest’impostazione il principale motivo di interesse di un film che nonostante non riesca mai a brillare a suo modo funziona, ma soprattutto colpisce per la sua volontà di portare in scena una sua idea di cinema.

Nell’asfittico panorama delle commedie italiane, Soap Opera riesce dove i precedenti film di Genovesi avevano fallito, cioè nell’andare (leggermente) oltre ad un banale cambio di apparenze, cercando di realizzare qualcosa di diverso. Da quest’intenzione nasce anche il tono del film, sempre leggiadro ma capace di accarezzare corde leggermente più malinconiche. Il problema è che gli strumenti per fare tutto questo tornano in parte ad essere sempre gli stessi. Oltre ad generale timore a stravolgere veramente la struttura, sono le recitazioni istrioniche di Diego Abatantuono e Chiara Francini, o gli sketch a colpi di faccette e pose di Ale e Franz, a mostrarci chiaramente una commedia macchiettistica e da cabaret che esce dalla porta ma ritorna contenta e sorniona dalla finestra. Così un’idea intelligente e personale di cinema si trova a popolarsi delle stesse caricature e smorfie che soffocano nove commedie su dieci da anni a questa parte. Il risultato resta comunque godibile, specie se contestualizzato, ma alla fine del film resta la sensazione dell’occasione in parte sprecata.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 16/10/2014

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