Ultima notte a Soho
Edgar Wright torna con un'opera allucinata e compendio della poetica del regista
La traduzione italiana ha dovuto per forza di cose localizzarlo temporalmente, ma in che cronòtopo vive il film di Edgar Wright? Di certo non è lo spazio-tempo di Hot-Fuzz e di Baby Driver, quel flusso costante fatto di rapide transizioni e panoramiche a schiaffo che trasportava lo spettatore linearmente, senza stasi, da un punto A a un punto B, da un punto B a un punto C. E non è nemmeno quello de La fine del mondo, dove le premesse narrative e la coerenza dell’universo fino a quel momento immaginato vengono sconvolte con un turning point a metà film in cui la narrazione e il genere cambiano improvvisamente tinta. Quello di Ultima notte a Soho è un mondo molto più simile a Scott Pilgrim vs the World, il frutto di una mente allucinata che interpreta la vita che lo circonda e i suoi dolori, attraverso il ricorso ai mondi che meglio conosce e che più la fanno sentire al sicuro: i videogiochi per Scott Pilgrim, la musica e la moda degli anni sessanta per la protagonista Eloise. Insomma, un film le cui coordinate spaziali, temporali e formali sono già tutte nel titolo originale: Last Night in Soho.
In questo horror citazionista, che riprende apertamente il Roeg di A venezia… un dicembre rosso schocking e il Polanski di Repulsione (sotto stessa ammissione del regista) e meno apertamente (anche se è chiaro) Dario Argento, Mario Bava, Alfred Hitchcock e David Lynch, convivono due temporalità che corrono parallele e che si intrecciano nella mente di Eloise. Quella degli anni sessanta, dove Sandie (Anya Taylor-Joy) è una cantante che cerca notorietà al Cafè de Paris e che viene costretta dal manager Jack a prostituirsi, e quella del tempo presente in cui Eloise è una ragazza la cui madre si è suicidata anni addietro e che riesce ancora a vedere attraverso gli specchi. Eloise si trasferisce a Londra per studiare moda ma, perseguitata dalle sue colleghe e coinquiline decide di cambiare casa, finendo col farsi ospitare da un’anziana signora. Dalla prima notte spesa nella nuova casa la ragazza inizia però a sognare la vita di Sandie, a provare le sue emozioni, entrando con lei in un rapporto simbiotico sempre più stretto che la porta a indagare sul suo omicidio. Ultima notte a Soho o La scorsa notte a Soho, quindi? Probabilmente tutte e due perché il montaggio alterna temporalità con strutture differenti (fluide, ritmate le sequenze negli anni sessanta, più statiche quelle nel contemporaneo) e soprattutto perché la vera natura di Eloise è quella del cinema tout court, la macchina che il tempo lo plasma, il rifugio dal reale. Eloise è sia spettatrice della vita di Sandie che schermo e proiettore per il pubblico in sala e se con Sandie si muove, se la imita nelle diverse scene in cui Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy hanno dovuto coordinare movimenti e postura come in uno specchio, se la assimila vivendo situazioni parallele ma non identiche alle sue (Eloise è vittima dello sguardo femminile, Sandie di quello maschile) è perché ogni spettatore si rivede nell’attore come in uno specchio falsato e perché in ogni film vivono prima di tutto gli incubi di chi guarda. Tornano in mente le analogie tra sogno e spettatorialità cinematografica: la luce che si spegne, la perdita dei confini, la stasi sulla poltrona o sul letto e il movimento degli occhi, l’empatizzare con un personaggio di un altro tempo, di un altro spazio, di un’altra dimensione.
Che il suo sia un film “sull’empatizzare con un personaggio cinematografico” lo dice lui stesso: d’altronde Edgar Wright è un cinefilo, è un nerd, e Ultima notte a Soho sembra il manifesto poetico di un autore che il cinema l’ha usato come filtro di una vita intera e della sua filmografia stessa. Il cinema del gioco e dell’evasione.