Chiara Ferragni - Unposted
“I had a Chiara Ferragni dream”: il documentario sulla influencer diventa un film di paura sul presente, una recita quasi impeccabile tradita dall’immagine.
C’è un momento, in Chiara Ferragni - Unposted, in cui cade il velo sulla sostanza del film e un’immagine diventa improvvisamente significativa, in sé e per sé, senza bisogno di altro. Si tratta dell’ennesima prova vestito che l’influencer deve sostenere in vista di un evento: l’abito, composto di vetri incastonati, si rivela troppo rigido e la ragazza non riesce a piegare un braccio. Per un istante Chiara resta così, con un arto a metà, sospeso nel vuoto e poi il film continua per la sua strada. Perché il documentario di Elisa Amoruso, regista che frequenta il reale attraverso l’esteriore - come conferma il successivo Bellissime -, offre due livelli di lettura: il primo è palese, ovvero il pedinamento della celebrità Chiara Ferragni e il racconto della sua storia secondo lei. La protagonista si mostra “come tu mi vuoi”, porgendo allo sguardo alcuni lati e omettendone altri, come viene proprio teorizzato dalla coppia Ferragni-Fedez quando riflette sull’opportunità di non condividere tutto (niente di strano: avviene in ogni doc su un personaggio famoso). La regista la asseconda: Amoruso la segue strategicamente con l’obiettivo di corteggiare il fanbase della influencer, e anche questo è legittimo, oltre che riuscito come attesta il clamore al Festival di Venezia, l’incasso in sala e ora le visualizzazioni sulla piattaforma di Amazon Prime Video.
C’è poi una seconda chiave, in questo film di 85 minuti, che si insinua più sotterranea e dislocante: quella racchiusa dentro l’immagine. Ferragni si è fatta da sola, ci viene spiegato, è oggi un’imprenditrice miliardaria perché ha saputo magistralmente sfruttare blog e social network, è stata pioniere e viene studiata ad Havard, ha molti collaboratori ma non deve nulla a nessuno («Solo io ho creato me stessa»). Inoltre è una grande esperta di moda, come Anna Wintour de Il diavolo veste Prada «con un’alzata di sopracciglio può cambiare un’intera collezione autunno-inverno». È bella, ha una bella famiglia, parla italiano e inglese, è molto educata e non dice mai parolacce. Ma c’è qualcosa che non torna. Un elemento che si nasconde dentro le inquadrature e a intervalli irregolari affiora: «I miei follower saranno fieri di me», sostiene Chiara mentre si fa un piercing, oppure «non si può essere sempre un personaggio vincente», mentre il montaggio la mostra sulla spiaggia intenta a evitare le onde. Dice proprio così: personaggio.
E allora ecco improvvisamente emergere, in modo quasi subliminale, la consapevolezza che si sta recitando: la prova è nell’allestimento del matrimonio, che viene interpretato come in un set, con tanto di reazione prevista nella mente di chi guarda (Fedez le sussurra nell’orecchio, e lei: «La gente capirà che mi dici una cosa dolce»). È chiaro: siamo nella messinscena. La rimozione scientifica di ogni forma di autenticità non avviene qui, è già successa molto prima dell’inizio del film e noi la stiamo solo guardando: è sottintesa e si applica a tutto senza eccezioni, dalla felicità alla malinconia passando per la commozione, «spero di piangere in modo carino». Il meccanismo non prevede un privato, ogni cosa - selezionata - viene esposta e postata su Instagram, compreso un figlio neonato come novello Little Miss Sunshine.
Unposted si presenta quindi come un documentario paradossale, che smentisce l’essenza stessa del genere: se storicamente il doc si lancia all’inseguimento della realtà, qui al contrario vuole catturare la finzione. Chiara Ferragni si scrive da sola e conduce l’auto-rappresentazione in abisso: la rappresentazione di sé avviene attraverso un film girato da un altro, in una dinamica non lontana da quella cara a Tom Cruise, che della saga Mission: Impossible ha fatto la quintessenza del suo ego, riuscendo a tematizzare il proprio superomismo in modo a tratti mirabile. Ma Chiara non è così: a volte ha uno sguardo vuoto, fa una recita perenne, una continua messa in posa. I suoi fan sembrano scritti da John Waters: sono meno belli e meno ricchi di Chiara, appena parlano capiamo che non ce la faranno. Il selfie è la dittatura a cui si tende. Il vestito-armatura si fa metafora tangibile di uno stato e di un mondo. Così Ferragni, che si propone «della stessa sostanza dei sogni», inconsapevolmente scivola nell’incubo. E Unposted diventa un saggio preterintenzionale sull’immagine di oggi: un film che fa paura, molta paura, e non certo per una posizione tristemente moralista ma perché riguarda il presente, cosa siamo qui e ora, consegnati a un’immagine virtuale e avvolti nella recita senza fine.
«I had a Monica Bellucci dream», dice Gordon Cole (lo stesso David Lynch) nel geniale episodio 14 di Twin Peaks: The Return. Cole incredibilmente ha sognato un personaggio vero e lo ha riconosciuto, seppure vivendo in un universo di finzione. Una Monica che non è Monica, naturalmente: un’attrice che interpreta se stessa in un racconto inventato mantenendo il suo vero nome. Si parva licet, allo stesso modo è la nostra protagonista: alla fine di Unposted possiamo dire “I had a Chiara Ferragni dream”, abbiamo sognato una ragazza reale che si interpreta all’interno di una storia finta. Ma il cinema si vendica, e lei viene tradita dall’immagine.