Procediamo con ordine: partiamo dalla fine. Gabriele Salvatores, interrogato dal «Corriere della Sera» sulla presunta debacle dei film italiani all’ultima Mostra del cinema di Venezia, individua senza appello quali sono i limiti della nostra cinematografia. Il regista di Happy Family sostiene che “il cinema italiano è inesportabile”, sperando “che si faccia una piccola riflessione sul cinema che si fa in Italia, in termini commerciali e di qualità”. È vero che il cinema italiano non ha incassato premi alla Laguna, ma è anche vero – e la storia è ricca di esempi a riguardo – che troppo spesso i premi non coincidono, o non spiegano del tutto, le qualità emerse da un festival, tacendo evidentemente sulle opere non premiate. Ma ancora: “il cinema italiano non è esportabile e manifesta gravi lacune qualitative”: presupponendo che i due fattori raramente vanno di pari passo o comunque non possono essere sempre sintetizzati in un’unica soluzione, Salvatores si ripete in un giudizio pressappochista. Già, perché delle due l’una: o Salvatores vuole cavalcare il luogo comune del “cinema italiano defunto cadavere” oppure il regista napoletano non ha visto film come Et in terra pax (ma potremmo citarne altri, come il toccante La pecora nera). Et in terra pax, volendo continuare a procedere a ritroso, è tutto tranne che “inesportabile”. Il film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini ha a tutt’oggi una distribuzione straniera (Francia e Germania le più papabili), ma è privo di una nazionale. Bel paradosso, vi pare? Ma soprattutto, superando interessi commerciali come se tutto si risolvesse nella riuscita economica di un’opera, Et in terra pax è un film “di qualità”, per usare il termine di Salvatores.
Siamo a Corviale, periferia urbana di Roma, luogo noto per il suo degrado, urbanistico e umano, dove la piccola criminalità è largamente diffusa fra i residenti. I registi Bortugno e Coluccini ci presentano alcune storie: quella di Marco, appena uscito dal carcere e che ripiomba nello spaccio di droga; quella di Sonia, studentessa universitaria che cerca attraverso l’accademia di riscattarsi socialmente e intellettualmente da un mondo che non sente suo; e quella di Faustino, Federico e Massimo, tre ragazzi che vagano senza meta fra le poche possibilità che l’inquadramento sociale ed urbano offre loro. In un clima ovattato e pronto ad esplodere, le tre vicende si intrecceranno a restituire una ragnatela sociale che tenta di trattenere al suo interno la realtà che accomuna i 14 mila abitanti di Corviale.
Et in terra pax è un western. Per la precisione, è il western più lento del cinema italiano. Botrugno e Coluccini ci mostrano degli spaccati di vita fatti di spaccio ed uso di droghe, lavoro nero, criminalità diffusa, violenze sessuali e vite vacue. Ma la violenza, espressa o repressa, non è mai oggetto di interpretazione, di spiegazione. La realtà ci viene mostrata per quella che è, nuda e cruda, senza orpelli moralistici o faziosi. È infatti presto intuìto che chi ha fatto le scelte di vita dei protagonisti è vittima di sovrastrutture sociali imposte, nessuno è mostrato in luce positiva o negativa, perché sarebbe un arbitrio, un atteggiamento pretestuoso farlo. Attraverso uno sguardo naturalista, antropologico e mai introspettivo, i registi indagano l’essere oppresso. Vengono mostrate le nullità delle esistente, passate fra bravate, bische del luogo e abbronzature prese in pieno centro urbano senza soluzione di continuità.
La pellicola segna l’esordio nel lungometraggio di finzione di Coluccini e Botrugno, pellicola presentata nelle Giornate degli Autori alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia e che sta per approdare al Tokyo International Film Festival. L’opera, grazie soprattutto ad una sceneggiatura e ad una costruzione dei dialoghi ammirevole, è una riuscitissima indagine sulla banlieue italiana – non solo romana – che vuole raccontare verità spesso dimenticate dal nostro cinema. L’opera è di quelle da appuntarsi, aspettando che riesca ad ottenere una distribuzione nazionale, per essere pronti a prendere parte ad una proiezione italiana. Un ottimo film, dunque, un western suburbano a sfondo sociale, un modello originale di narrazione filmica per un cinema invisibile che così facendo spariglia le carte, non volendo essere più trattato come tale.