Sconosciuto ai più, eppure così visceralmente amato: nelle intercapedini del cinema si cela la figura di uno degli autori più tacitamente influenti del secolo passato, Jan Švankmajer. Soprattutto in Italia, dove la distribuzione dei suoi film è pressoché inesistente, è possibile reperire le sue opere solo sporadicamente nella programmazione di qualche temerario cineclub. Švankmajer, poliedrico artista praghese, è noto principalmente per l’eredità riconosciutagli da eminenti e più giovani registi, dai fratelli Quai a Terry Gilliam passando per Tim Burton. Il suo lavoro inizia negli anni sessanta, data a cui risalgono i suoi primi cortometraggi, quando Švankmajer apparteneva al circolo surrealista di Praga. Purtroppo i lavori dell’autore, a partire dal suo primo film Alice (N?co z Alenky), ebbero serie difficoltà di distribuzione in patria a causa della censura imposta dal regime comunista. Furono, però, accolte negli Stati Uniti dove trovarono presto una loro giusta diffusione.
Caratteristica delle opere di Švankmajer è l’uso della stop motion e della pixillation per animare persone, oggetti e plastilina, ricercando effetti espressivi grezzi e marcati. Per l’autore ceco l’animazione è infatti uno strumento di fondamentale importanza, non rivolto alla creazione di mondi fantastici ma piuttosto all’individuazione del fantastico nel reale. Ciò che prende vita sono oggetti comuni che, strappati al loro contesto usuale e al ruolo che incarnano per esigenze di consumo, divengono forme in cui è racchiusa vita in potenza. Vita che è anche voce, i rumori stringenti emessi dai mostri del quotidiano, con cui l’autore instaura un rapporto dialogico e comunicativo. Grandi protagonisti delle opere di Švankmajer sono infatti i giocattoli, i vestiti, il cibo, la carne – elementi inanimati che acquisiscono movimento e significato grazie al loro geniale demiurgo.
Nel 2010 Švankmajer presenta fuori concorso a Venezia il suo sesto lungometraggio, Surviving Life (Prezít svuj zivot – teorie a praxe), toccando l’apice di una filmografia ricca di spunti e suggestioni visive. L’insieme delle tecniche sviluppate negli anni dall’autore ceco si combina nella realizzazione di una storia che ne incarna la perfetta matrice. Nel film, definito nella sua splendida premessa una “commedia psicoanalitica”, sogno e realtà si mescolano fino a far emergere il ricordo di un trauma infantile del personaggio protagonista, Evzen. La (con)fusione tra l’universo onirico e il quotidiano, plasmato dalle immagini sognate, è tale che ogni scena si compone di un montaggio eterogeneo che comprende inquadrature live action, spesso dettagli, alternate a fotografie animate, a movimenti in stop motion e foto in bianco e nero. I personaggi sono animali antropomorfi o umani zoomorfi, cocomeri, mani giganti e labbra che riempiono per intero l’inquadratura. Specchio dell’anima non sono gli occhi ma la bocca, orifizio vitale per gli esseri viventi in quanto essenziale per il nutrimento e la comunicazione: essenziale e inquietante in quanto dimora di denti capaci di divorare ogni cosa, come accade in un altro splendido film del surrealista praghese, Little Otik (Otesánek).
L’amalgama stilistico scelta da Švankmajer sottolinea come il sogno, o l’inconscio, sia parte integrante del modo di esperire la realtà e l’unica via per raccontare “la pienezza della vita umana”. Pienezza che è necessariamente sfaccettata e si compone di immagini che appaiono insensate perché caratterizzate da una simbologia ancora da decifrare. Così il protagonista si trova a fare i conti con un passato che si fa incontenibilmente strada nella sua esistenza, sconvolgendone la monotonia. Perdendosi completamente nel sogno, Evzen inizia una vita parallela in cui si innamora di una giovane e bellissima donna, e in esso decide di voler vivere (come gli dirà la sua bella, “Il sogno è una seconda vita. E talvolta anche la prima”). Per raggiungere questo suo scopo frequenta lo studio di una psicoanalista, donna-gallina che interagisce con due quadri ritraenti Freud e Jung, anch’essi animati. Il rapporto terapeutico, vissuto con surreale ironia, porterà a rivelare la vera natura del sogno di Evzen.
Švankmajer ci insegna, dunque, che il vissuto inconscio ha un ruolo fondamentale nel plasmare gli individui e il modo in cui essi si rapportano al reale. Il sogno fa emergere, in forma sublimata, emozioni represse che si articolano in sfaccettature e incoerenze. Bisogna avere il coraggio di combattere la dittatura di un Super-Io “con l’alito pesante” e rendere un evento doloroso, come quello vissuto da Evzen, parte del proprio universo emotivo. Così Švankmajer fa sapientemente emergere il ricordo in immagini frammentate e irrisolte. Sta a Evzen, e con lui a noi spettatori, ricomporre il puzzle della sua vicenda per poter pervenire, attraverso gli indizi del sogno, alla ricostruzione del suo vissuto infantile. Questo conduce a una comprensione profonda dell’esistenza e della vita del personaggio. Comprensione che nella diegesi del film ha una potenza enorme, tanto da fagocitare la vita del protagonista, inconciliabile con la sua “seconda vita” interiore, per portarlo infine alla scelta di rinunciare al suo presente in nome della verità sul suo passato.
Concludiamo evocando nuovamente i primi minuti di Surviving Life. La pellicola si apre con una premessa in cui l’autore, attraverso una fotografia animata, si mostra rivolgendosi direttamente al pubblico per informarlo che il film è stato realizzato in animazione per mancanza di fondi, che è una commedia in cui c’è ben poco da ridere, che ci sarà una psicoanalista (e solo per questo la definisce una “commedia psicoanalitica”) e che la stessa premessa è stata aggiunta perché il film aveva bisogno di essere integrato con minuti supplementari. Se da un lato il maestro ceco ammicca alla difficoltà, nonostante la fama internazionale di cui gode oramai da anni, di reperire finanziamenti per realizzare le sue creazioni, dall’altro il messaggio celato è significativo ai fini della comprensione dell’opera. Inutile dire che, se fosse stato realizzato con una tecnica più tradizionale, il film avrebbe avuto un impatto visivo ed emotivo diverso e un significato potenzialmente meno incisivo. Se la messa in scena è stata dettata da una necessità, questa non è quella economica recriminata dall’autore ma piuttosto un’esigenza inerente allo svolgimento stesso del film.
La narrazione frammentaria, libera e cangiante di Surviving Life dipinge un quadro le cui pennellate si compongono in un risultato finale sorprendentemente completo e ricco di sfumature. Attraverso la ricerca di un senso, rintracciabile nello scarto e nell’accostamento del diverso, Švankmajer continua a sorprendere con intuizioni espressive semplici ed efficaci, creando un’opera unica e straordinaria che stuzzica piacevolmente la vista e l’intelletto.