Road to Nowhere
Il personale "Effetto notte" di Monte Hellman che prende corpo in forma digitale, post-modernamente adattatasi ai tempi.
“Aiutami ad attraversare la notte”. Si apre così il ritorno alla regia di Monte Hellman dopo ventidue anni di silenzio pressoché totale, con un’oscura richiesta d’aiuto sussurrata e reticente in forma di canzone, e quella sensazione immediata, più fastidiosa e stranita che familiare, di ritrovarsi davanti a un oggetto non identificato, un ufo di impercettibile insondabilità. Una sensazione che cresce scena dopo scena, sequenza dopo sequenza, in Road to Nowhere, valso al suo regista un Leone d’Oro speciale all’insieme dell’opera e della carriera alla Mostra del Cinema di Venezia del 2010, l’edizione targata Quentin Tarantino dalla testa ai piedi: un presidente di giuria che in sede di palmarès si profuse in un amorevolissimo e riconoscente omaggio a uno dei suoi mentori più preziosi, colui che ebbe il coraggio vitale e l’intuizione macroscopica di credere nel potenziale esplosivo de Le iene e di produrlo. Non uno scherzo, non un servigio da poco.
Il fiuto di un segugio è però solo una delle belle caratteristiche che vanno a connotare questa ombrosa e schiva figura del cinema a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, pioniere assoluto dell’indipendente americano, maestro di ruvidità e secchezza implacabile, di ambienti inchiodati al muro invalicabile dei propri limiti e del fango della propria carne e delle proprie sporcizie. Un cinema cinico e roccioso, filiazione anarcoide del Sam Peckinpah più ispirato, decostruzione e ricomposizione dei cocci di una realtà ostile in ogni singolo momento della sua decantazione priva di pietas, di un’anti-epica del western che è negazione di ogni sua retorica, anche la più legittima, la più accorata, la più indispensabile (La sparatoria , Le colline blu). Messe in scene al vetriolo capaci di frammentare il tessuto filmico in una serie di sezioni irriconoscibili, brutalizzate, terribilmente lontane da una compatta poeticità dell’ispirazione ma assolutamente vicine alle pieghe scomode della realtà più estrema. Hellman rinuncia pertanto al fuoco sacro e appassionato di una storia da raccontare in nome di un realismo non conciliante, riuscendo però a risultare al contempo dispensatore di un godimento immaginifico che non lesina vette entusiasmanti, perfino orgasmiche (Strada a doppia corsia è in tal senso il film di Hellman più emblematico, il più sensazionale, il più travolgente). Mancava ancora però, nella filmografia di questo professore di cinema del California Institute of Arts (incarico che Hellman svolge tutt’ora), un arzigogolo di pura cinefilia, un meccanismo che pur con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni riuscisse a trasudare una passione sghemba eppure purissima per le immagini e per la loro dose di incommensurabile, misterica magia, in grado di insinuarsi anche nel frame apparentemente più marginale.
Ed è ecco che poco più di vent’anni dopo arriva Road to Nowhere ad esaudire tale desiderio, con un film che – come legittimamente ci si aspetta da Hellman – nega fin da subito ogni voracità e ogni approccio passionale, costringendo lo spettatore dentro le forme inscurite e peste di un ingabbiante noir anni ’40: un avvio magistrale che fa un uso della profondità di campo ellittico e rivelatore, con sequenze che paiono fin da subite imbevute di un’americanità tanto profonda quanto inespressa, una versione tutta virata al nero di un’indefinibile anima country che fatica paurosamente a dare voce al proprio gorgheggio già di suo informe. Un CD che entra in un PC, la stramba presenza di un phon che l’evanescente protagonista (una Shannyn Sossamon di bellezza sempre selvaggia e inenarrabile) si punta alla faccia ed ecco partire il metafilm, la riflessione sul cinema che alberga nei meandri di sé stesso, il personale Effetto notte di Monte Hellman che prende corpo in forma digitale, post-modernamente adattatasi ai tempi. Un lago, un aereo che vi si inabissa schiantandosi. Pennellate di indizi adombrati, segnali di visioni parallele che prendono direzioni diverse e si sparigliano. Un libero-associazionismo disperato, amorfo, rassegnato al vuoto di senso. Vien in mente Strade perdute di David Lynch, guardando Road to Nowhere. Non a caso. La meta della peregrinazione, imbastita dall’autore come schermo riflettente (di sé e dei suoi vari sé, psicologici e narrativi) e come pretesto autoanalitico, è eloquentemente secondaria. Anzi, forse del tutto inesistente. Quel che conta è il contraltare di un dietro le quinte che non c’è, il dramma cupissimo di una finzione così tetra e disperata da somigliare alla realtà fin quasi a soprapporvisi, in virtù di una corrispondenza rituale, quasi sacerdotale. Indifferentemente, inevitabilmente, le due facce della stessa medaglia vengono a coincidere. Nel film si guardano gli extra di The Departed con Leonardo Di Caprio intervistato, si strizza l’occhio al racconto di un classico diario di lavorazione, si finisce in rivoli di morbosa inconsistenza, in un universo cinematografico parallelo e ascetico, che vive di sospensioni e dilatazioni, continui rimandi all’artificialità del mezzo filmico e alla contemporanea necessità del suo essere comunque anticonvenzionale, proprio come ne Lo spirito dell’alveare di Victor Erice, un’opera gigantesca a cui Hellman guarda candidamente e non facendone mistero in alcun modo.
Premesse di questo tipo non possono che condurre per mano verso l’unico esito possibile: l’ossessione finissima e distillata, che in Hellman è comunque sempre priva di coordinate, rarefatta al massimo grado, quasi eterea. Il tutto nella forma del solito sgangherato intrigo alla Mulholland Drive, lynchano al sommo grado ed erede ben marcato di una vertigine hitchcockiana che è genesi inconsapevole e primigenia anche e soprattutto delle sue devianze più distorte, naturalmente successive. Qui Mitch Haven, (ovviamente) regista, sovrappone in qualche modo la sua giovane amante, Velma Duran, all’interprete da lui scelta per il suo film, Laurel Graham. Somiglianti fino alla sovrapposizione anch’esse e preludio prevedibile a una follia dilagante che non può non esplodere in un esito paradossale: l’amore smisurato che diventa violenza, ibridazione contronatura di tutto ciò che a rigor di logica dovrebbe seguire dei sentieri raziocinanti. Se le immagini le si amano così tanto, il piacere subdolo e perverso pertanto non sta tanto nel percepirne il fluire quanto nel bloccarne un frame, esattamente come la donna amata viene traslitterata in un ambito di finzione per poterne assaporare maniacalmente e meglio i connotati, cristallizzandoli come in una grottesca e inquietante casa di bambola (un effetto cui il mare profondo degli occhioni della Sossamon, simili ad abissi di brunissima perdizione, contribuisce mirabilmente). E allora ecco che il modo in cui Road to Nowhere si congeda dallo spettatore si carica di un potere simbolico non indifferente, sancendo un’affermazione ulteriore e definitiva del cinema come manifestazione dell’inesprimibile che si fa ossessionante stranezza, visione strampalata, occasione di scorporare l’oggetto del proprio amore dalla realtà e idolatrarlo. Svelarne il dispositivo e l’ingranaggio sotterraneo e interno che muove il tutto (il cinema come terapia, cura, speranza più o meno convincente di guarigione) è – sempre e comunque – il primo passo per eternare il rito e ritrovare immutata ed eterna, giro dopo giro, passaggio dopo passaggio, opera dopo opera, l’ampia gamma delle sue possibilità rivelatrici. Molto spesso fondamentali, anche quando non così manifeste o zampillanti in superficie ma piuttosto, come in questo caso, sparpagliate sui sentieri imperscrutabili di una strada che vira dritta verso il nulla.