Maldoror

di Fabrice du Welz

Maldoror è un film che sconquassa le aspettative dello spettatore, che sottrare e cela l’orrore per restituire malessere e insoddisfazione – quella del protagonista per le indagini, la nostra per l’andamento della narrazione – ma che dimostra, ancora una volta, che ad oggi, per fare cinema di genere, sia necessario coraggio

Maldoror - recensione film Du Welz

Sono passati esattamente vent’anni dal discusso e promettente esordio del regista belga, Fabrice du Welz. Quel Calvaire che per molto tempo rimase sulla bocca di molti cinefili, per la potenza con cui fu in grado di portare il malessere proveniente dalla provincia, divorata da delusioni soffocate nell’odio e degenerati sentimenti maschili in un mondo senza luce. Du Welz arriva ora al Lido all’ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia con il suo Maldoror, un racconto true crime che sembra accodarsi alla scia di produzioni di genere che nell’ultimo periodo sta invadendo il mercato delle piattaforme e non solo. Prodotti collaudati, in grado di accontentare la crescente domanda di storie che possano addentrarsi e dissezionare le vicende dei più grandi serial killer. Figure ormai ultraterrene che nulla più hanno di umano, i cui gesti sembrano esulare da pulsioni conosciute, provenire da istinti inspiegabili. Du Welz decide invece di guardare altrove, per restare sapientemente legato al nucleo di ciò che ha reso famoso il suo cinema, quell’attenzione all’origine del male che trasuda dagli ambienti in cui nascono i suoi personaggi.

Paul Chartier (Anthony Bajon) è un giovane ispettore di polizia distaccato a Marcinelle, un piccolo-medio paesino nel sud del Belgio. Popolato da un variopinto assortimento di persone, tra italiani, belgi, francesi e sinti. Il film ci informa sin da subito che la storia narrata è basata su un fatto realmente avvenuto, misteriosi rapimenti di bambine hanno scosso la popolazione della provincia belga.
Paul ha un passato oscuro, che lo porta a essere irremovibile e saldo nelle sue idee di giustizia, le quali guideranno tutto il suo arco all’interno del film. Una storia di rinascita come molte altre, che solo apparentemente sembra seguire lo stereotipo del genere – un ispettore senza macchia e senza paura in grado di risolvere ogni caso, e che trasforma ogni storia in una sfida personale – per ritrovarsi a sondare i luoghi nei quali il cinema del regista belga si alimenta: nelle periferie del mondo e dell’animo umano. Dove la dicotomia uomo-natura vede assottigliarsi il suo confine (la scena verso il finale in cui Paul si trova a combattere con un maiale che sta consumando i resti umani nella cantina del rapitore-pedofilo) per esplodere in eccessi di rabbia e frustrazione, verso forme di sacrificio ultimo. Sentimenti che albergano nei protagonisti, trasmutati dai luoghi in cui ognuno di essi si trova a vivere, stazioni di polizia in cui l’inefficienza regna sovrana, famiglie che ancora portano avanti rituali desueti e superati – la suocera che vieta a Paul di vedere la figlia prima del matrimonio – costringendo ogni persona ad agire nell’ombra, costruendo realtà apparenti. Fatiscenti gesti quotidiani che nascondono una rabbia covata per anni, finte pareti che celano l’orrore al mondo. 
È all’altare della verità che Paul immolerà tutto sé stesso, cercando di smascherare una rete di ombre e fantasmi che opera al di sopra della legge – il film si basa su alcune ipotesi che vennero fatte all’epoca, nelle quali veniva portata alla luce la complicità delle più alte sfere della politica nel traffico di minori – un percorso che lo lascerà solo, abbandonato da tutti, familiari e colleghi, troppo impauriti o intenzionati a mantenere invariata una realtà fatta di menzogne e maschere.

Una discesa agli inferi che avvolge una durata non indifferente. Centocinquanta minuti scanditi per una buona parte da una sezione di pura detection, nella quale ogni errore commesso dal protagonista (lontano, come detto, dallo stereotipo dell’ispettore ineffabile e indefesso) sarà causa del prolungamento delle indagini. Un continuo susseguirsi di delusioni e fallimenti, che lo porteranno a compromettere e abbondonare i suoi codici.
Ed è nel finale che Du Welz, parzialmente, ripaga l’attesa dello spettatore meno paziente e abituato a quei prodotti standardizzati citati citati poc’anzi. Quindici minuti in cui la violenza viene a galla, precedentemente rimandata e restituita dal fuori campo filtrante di foto e filmati: è il sussurro di una bambina, non udibile dallo spettatore, che segna la discesa di Paul. Un orrore che è naturale conseguenza dell’arco narrativo del protagonista, e mai fulcro (o intrattenimento) del racconto. In questo rigore narrativo e di messa in scena, saldamente gestito da du Weltz, si crea il distacco con i soliti prodotti true crime, e un controcampo formale allo smarrimento subito da Paul, un contrasto che guida pian piano lo spettatore all’interno del vortice di eventi e situazioni, a volte confusi o solo accennati.

Maldoror è un film che sconquassa le aspettative dello spettatore, sottrare e cela l’orrore per restituire malessere e insoddisfazione – quella del protagonista per le indagini, la nostra per l’andamento della narrazione – ma che dimostra, ancora una volta, che ad oggi, per fare cinema di genere, sia necessario coraggio. E Du Welz, come Paul nonostante i suoi difetti, dimostra ancora una volta di non volersi adeguare, di avere la forza per non tirarsi indietro.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 12/09/2024
Belgio - Francia 2024
Durata: 155 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria