Athena
Il conflitto sociale diventa tragedia greca girata a mo' di war movie; è un punto limite, di stile e forza grafica, che satura lo schermo e crea nuove immagini-mito per una lotta vissuta ai tempi della social-estetica globalizzata.
Con un cinema americano che sempre più appare polarizzato, oggi, tra le categorie di alto e basso, grande e piccolo – una forbice che si allarga e vede da un lato cinecomics colossali e dispiegamenti seriali ad alto budget, e dall’altro immaginario indie alternato a horror e affini in versione arthouse – il genere, inteso nel senso più puro di meccanismo narrativo capace di generare immaginario connettendo spettacolo e discorso sul reale, latita in quel di Hollywood, mentre invece torna a fare la sua comparsa all’interno di certe cinematografie europee, specie se ipertrofizzate dalle intenzioni produttive di colossi streaming come Netflix.
Si pensi alla forza espressiva, stilistica e concettuale, di Rodrigo Sorogoyen, manifestata in film come Il regno o nella serie Antidisturbios; all’efficacia del danese Shorta, odissea noir attraverso le maglie del ghetto; alla capacità ciclica del cinema francese di tornare con le griglie del poliziesco ai territori delle banlieues, epitomi della questione sociale nel suo intrecciarsi di piani etnici, economici, culturali. I tempi de L’odio sono lontani, ma film come Polisse e I miserabili portano avanti il discorso, alzano il tasso di spettacolarizzazione e intensità del conflitto. Athena, in questo, è un punto limite, di stile e forza grafica, un film che satura lo schermo e crea nuove immagini-mito, affinché rappresentino la lotta in tempi di social-estetica globalizzata. Scritto dal regista de I miserabili, Ladj Ly, il film infatti gode di una regia muscolare di primo livello, una stilizzazione virtuosistica spesso vertiginosa a opera di Romain Gavras che, estendendo le coordinate estetiche del suo videoclip No Church in the Wild (Jay-Z e Kanye West), realizza un war movie militante di stampo sociale in cui la militarizzazione dello spazio urbano rende le banlieues un campo di battaglia tra polizia e insorti.
Atena, nella sua accezione più popolare, è la dea di arti e conoscenza, ma Atena Promachos è la conduttrice di eserciti in battaglia, colei che combatte in prima linea e dal cui favore dipende la bontà della strategia con cui si scende in campo. Ogni scontro, anzitutto se sociale, necessità di strategia, altrimenti il rischio non è solo di essere sconfitti ma di perdere il peso delle proprie azioni, la pertinenza di sé, subendo la manipolazione di forze terze che si tengono ben lontane dal conflitto. Athena, nel racconto, è il quartiere di cui i rivoltosi prendono il controllo, i bastioni, ma è anche un monito, un invito a combattere con criterio ed evitare interferenze, posto da un film il cui impianto retorico non potrebbe essere più dichiarato e cristallino. Tutto infatti è costruito guardando alla tragedia greca, tanto nella gestione mitica dei personaggi, dei loro corpi mediterranei e dorati, quanto nei rapporti di forze e simbiosi tra individuo e collettività, identità e territorio. Athena torna alle origini del racconto e della società stessa, all’agorà e l’esser parte di qualcosa, organi di un tessuto sociale iniquo e disfunzionale, spesso asfittico, necessitante cambiamento, rabbia, riscrittura delle sue coordinate (politiche certo ma anche estetiche). Di qui un film che lavora lungo linee geometriche esatte, con personaggi attivati e disattivati da pulsioni assolute perché primigenie, ontologiche nell’essere uno e contemporaneamente parte di un tutto, corpo collettivo; ecco quindi le tattiche di guerra mutate dalla testuggine, le musiche sussurrate e gridate in urla corali, le soluzioni grafiche chiaroscurali.
Per quanto manichea, non si può negare l’efficacia di quest’impostazione discorsiva, la sua pertinenza retorica, nella quale i tre fratelli protagonisti, Abdel, Karim e Moktar, non sono solo figure esemplari in conflitto tra loro ma incarnazioni sfaccettate della questione sociale. Abbiamo a che fare con un personaggio uno e trino, che non solo rappresenta i tre stadi della vita (giovinezza, adultità, maturità) ma anche tre esiti del processo d’integrazione, dalla disillusione criminale del più grande Moktar alla rabbia cieca e bisognosa di speranza del giovane Karim, capo del popolo in rivolta, passando per il fratello di mezzo, Abdel, che in quanto soldato e mediatore incarna il bisogno di credere al sistema, la fede che un’integrazione sia possibile. Attorno a questa triade si muovono quindi gli spettri della radicalizzazione terroristica e della manipolazione subita da forze esterne, i rischi cui è esposta la rabbia quando resta inascoltata.
Girato interamente nella periferia di Parigi, a Evry, in un complesso abitativo popolare destinato alla demolizione (Parc aux lièvres), Athena declina il suo impianto tragico con uno stile visivo a dir poco spettacolare, un susseguirsi di piani sequenza che – fin dalla clamorosa apertura – adotta il linguaggio del film bellico portandone le istanze visive alle estreme conseguenze, alla massima efficacia grafica. Di rado si è assistito a un film europeo dotato di tale intensità adrenalinica, una capacità simile di gestire il caos di comparse, fuochi, corpi, movimenti e conflitti, orchestrando coreografie belliche prive di ogni traccia di onanismo o blanda derivazione videoludica. Perché se il territorio è la casa del corpo sociale, seguirne le cellule e gli organi significa pedinare i corpi attraverso tutto il contesto urbano a disposizione, dietro ogni angolo e porta, lungo i corridori, su fino ai tetti e sotto negli scantinati, sempre addosso con la massima fluidità, senza incertezze e sporcature perché non è questione di effetto-del-reale, ma di percepire con la massima spettacolarizzazione possibile come quegli angoli e porte, corridoi, tetti e scantinati siano già sede di forme belliche permanenti, e di lì rendere tale tensione questione estetica, auto-rappresentativa. Il rapporto tra corpi e spazio offerto da Athena ha dell’incredibile, è una mappatura del campo di battaglia di rara potenza, ma soprattutto la traduzione del discorso politico in forma grafica ultrapopolare. Perché anche la lotta di classe, di etnia e dignità sociale, ha bisogno di opere che aggiornino e stilizzino il suo immaginario, serbatoi di immagini-mito che diventano nuove icone e simboli, cristallizzazioni di un bisogno di massa che viaggia attraverso le forme contemporanee dell'immagine social e globale.