Un autre monde
L'ultimo capitolo della trilogia di Brizé dedicata al mondo del lavoro è ancora una volta un film magnifico, un thriller dialettico sulle aporie del capitale e il valore etico del sacrificio.
«Rifiutare di accettare le realtà del mercato vuol dire tornare a un altro mondo. Vivere in un altro mondo». È ciò che nel precedente film di Stéphane Brizé, In guerra, risponde il CEO tedesco alla delegazione sindacale che, dopo trattative estenuanti, riesce a incontrarlo per chiedergli di cambiare idea, di non chiudere uno degli stabilimenti della ditta lasciando disoccupati 1100 lavoratori. Un autre monde; un altro mondo, dunque. Che però è sempre lo stesso che il regista, insieme a Vincent Lindon e allo sceneggiatore Olivier Gorce, ha iniziato a raccontare nel primo capitolo della sua trilogia sul lavoro, La legge del mercato. Ed è talmente uguale, questo mondo, che il titolo del nuovo film sembrerebbe assumere connotati sinistramente sarcastici. Perché un mondo “altro” non sembra esistere; perché ancora una volta si parla di aporie del capitale, di aziende in attivo che producono utili ma vengono comunque considerate in perdita, non abbastanza performanti, incapaci di accrescere i profitti e di far lievitare i dividendi degli azionisti. E la risposta della proprietà, di ogni padrone (quanto suona obsoleta, oggi, questa parola?) è sempre e solo una: tagliare, epurare, delocalizzare, lavorare peggio lavorando in meno.
E allora non sarà un altro mondo ma questo è un altro film, in cui lo straordinario Lindon (diretto da uno tra i maggiori direttori d'attori contemporanei) si trova dall'altra parte della barricata: non più operaio ma dirigente col compito di individuare una sessantina di 'esuberi' e farli fuori. Uno per uno, nome dopo nome. Con lo stesso evidenziatore che stringe sempre in mano e che non molla neppure per guardare il video di auguri inviatogli dalla figlia per il compleanno. Un altro film, in cui l'attore non è più, come avveniva durante In guerra, un volto tra la folla, ma è una figura isolata praticamente in ogni inquadratura, perché il dolore delle scelte da compiere non deve riguardare altri che lui: non la moglie che non può più tollerarlo, quel dolore, e che ha chiesto il divorzio per non doverlo più respirare; non il figlio, studente di una business school che ha ereditato il senso del dovere paterno come una tara genetica e subisce un collasso emotivo da cui ha fretta di riprendersi «per non restare indietro».
Il Philippe di Lindon non è un solitario: è un uomo solo, prostrato dal tentativo di trovare una mediazione inaudita tra le richieste aberranti della proprietà – che pretende di «ridurre il grasso dov'è possibile», dove per “grasso” si intendono i lavoratori – e gli scrupoli inestimabili della sua umanità residua. Un uomo che quando pensa di averla trovata, quella soluzione, rinunciando al proprio bonus annuale per salvare delle “teste”, viene prima blandito, poi irriso e infine umiliato. Perché la sua risposta può essere logica ma è talmente “fuori registro” e inattuale da apparire naive; perché svilisce il principio della competitività e aggira penosamente lo slogan ottuso della multinazionale: «ponetevi sempre l'obiettivo di pensare più in grande di voi stessi». E così Philippe decide di fare da sé, di approvare in autonomia la risoluzione che possa ammansirgli la coscienza: esattamente come la guardia giurata Thierry in La legge del mercato, che rinunciava a denunciare i poveri cristi che rubano per fame, o come il Laurent di In guerra, che si dava fuoco davanti alla sede centrale della sua azienda per far riaprire le trattative sindacali. E in questo ennesimo thriller dialettico, in cui il dato con cui fare i conti è constatare come tutti abbiano le proprie ragioni, per quanto sbagliate o immorali siano, la decisione dell'uomo è quella di interrompere i negoziati con la controparte per trasformarsi, ancora una volta, in un eroe riluttante che mostra come si possa conservare la propria dignità in un mondo che sembra cospirare per annientarla. Un eroe di cui Brizé celebra orgogliosamente lo status mostrandone non a caso (e più volte) la vestizione, come in un action degli anni Ottanta, il cui sacrificio non lo emenderà agli occhi dei colleghi (che non ne sapranno mai nulla) né dei manager (che semplicemente non hanno gli strumenti etici per apprezzarlo) ma grazie al quale potrà ricominciare a guardare sua moglie e suo figlio negli occhi in un magnifico finale en plein air. «Perché la libertà ha di certo un costo, ma non ha prezzo»: Brizé e Lindon riescono nel miracolo di farcelo credere. Come di farci credere che sì, forse un altro mondo è possibile.