Fear X

In attesa di chiudere a settembre con un’analisi complessiva della trilogia Pusher, torniamo oggi in questa sede a parlare di Nicolas Winding Refn. Come detto nel precedente appuntamento con Bleeder – secondo film del regista, datato 1999 – Refn è oggi nel bene o nel male uno dei registi europei di punta, lanciato dopo sette lungometraggi in una carriera hollywoodiana. Allo stesso tempo però il suo è ancora oggi un cinema imperfetto, indiscutibilmente forte ed esteticamente ricco, ma nel quale sono presenti luci ed ombre, forti suggestioni accompagnate da incertezze visive e decisive lacune narrative. Risultati altalenanti comunque, per un cinema che cambia pelle squamandosi nei propri eccessi, vie dirette per opere convincenti (Bronson) o meno (Bleeder). A metà strada tra i due esiti possiamo collocare il lavoro di oggi, Fear X, realizzato nel 2003 assieme allo scrittore Hubert Selby Junior, musicato da Brian Eno e splendidamente interpretato dal sempreverde John Turturro.

Il grande attore italoamericano interpreta Harry Cain – il cognome cainita non è messo a caso – anonimo vigilante di un centro commerciale del Wisconsin che si trova, da un giorno all’altro, a dover fare i conti con la morte della moglie, uccisa in un misterioso conflitto a fuoco nello stesso edificio. Cain non riesce a darsi pace per l’evento, e ossessionato dal voler capire cosa e perché sia successo passa le notti a visionare e catalogare le cassette dei circuiti di videosorveglianza, convinto di poter individuare con questo lavoro di settaccio l’indizio o la prova definitivi. Dopo aver messo le mani sul video della stessa aggressione, Cain inizia a precipitare sempre più in uno stato di ossessione mentalizzata, un viaggio paranoico alle origini prime della violenza, privo di una sicura collocazione nell’assetto del reale.

Rispetto alle due opere precedenti del regista, Fear X rivela una violenta sterzata, evidente soprattutto nel ritmo e nella costruzione della narrazione; allo stesso tempo possiamo trovarvi il proseguire di un discorso sotterraneo, una tensione tellurica incentrata sul tema della violenza e della metabolizzazione di essa da parte dell’individuo – carattere imprescindibile in tutto il cinema del regista danese – che si manifesta concretamente tramite l’uso del colore rosso nelle scene e nei set, e mentalmente nel trauma psicologico provato dal protagonista. Fear X diviene così il film più mentalizzato e psichico di Refn, costruito su una rigorosa focalizzazione interna che, nel condurci all’interno di una mente chiaramente instabile, ci racconta una percezione soggettiva forse allucinata forse reale, comunque priva di raffronti oggettivi. Contrariamente a quanto fatto sinora, Refn spoglia il soggetto della capacità di discernere il reale dalla finzione, relegando questo potere conoscitivo alle sole riprese delle videocamere di sorveglianza. Per essere reale deve essere ripreso, pare dirci il regista, portando avanti una presa di posizione comunque contraddittoria dato che l’intero racconto è costruito sulla fallacia dello sguardo cinematografico. Questa costruzione/decostruzione è sicuramente l’aspetto più riuscito ed intrigante del film, invalidato però gravemente da un’estetica e un dosaggio del racconto tipicamente lynchiani.

Se infatti nella pellicola precedente Refn sembrava rimanere aderente al suo modello tarantiniano, qui la sua estetica riprende a vagare in cerca di nuove soluzioni, ma lo fa reiterando lo stesso vecchio errore: un avvicinamento ad un linguaggio pre-esistente che non riesce a farsi attiva rielaborazione. Molte, troppe sequenze di Fear X infatti sembrano davvero uscite da una versione leggermente ammorbidita di Strade perdute, del quale la sospensione sensoriale del protagonista e il lavoro di rappresentazione degli ambienti domestici ritornano con decisiva insistenza. Oltre a questi altri sono gli elementi troppo vicini al cinema di Lynch tutto, basti pensare al colloquio nella stazione di polizia, paradossale scambio di battute sospeso in quel ritmo onirico che troppo fa Twin Peaks. In conclusione, analogamente al precedente Bleeder questo Fear X, seppur diretto in altre direzioni, appare come un’opera a metà, nata da una padronanza del mezzo cinematografico non indifferente ma allo stesso tempo limitata da un vuoto di identità, una mancanza di personalità forte. Essa emerge solo a sprazzi e in pochi elementi del racconto, interessanti e stimolanti ma sicuramente non sufficienti a salvare in pieno il film. Come detto in apertura quindi, un cinema a metà, potente ma spesso mal direzionato.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/03/2015

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