I due papi
Scrittore e drammaturgo, Anthony McCarten scrive per Meirelles la genesi di un’icona: Papa Francesco, dopo i biopic su Stephen Hawkins, Winston Churchill e Freddie Mercury. Troviamo le differenze.
Ferdinando Meirelles immagina un incontro tra Papa Benedetto XVI e il Cardinale Bergoglio, nel momento decisivo in cui, ancora, immagina, si scambiano i ruoli, per invertire la Storia. Sotto una spinta progressista e francescana, ci spiega, Bergoglio dimette gli indumenti istituzionali del Sacro Padre per camminare con un paio di scarpe da individuo comune il sentiero tra gli uomini. Il Papa perde la sostanza del Santo, mentre Bergoglio gli si sostituisce, uomo in quanto uomo, eroe civile della sua terra, vento esotico e rivoluzionario. I due si studiano, l’uno (Bergoglio) guarda l’altro con sguardo compassionevole, l’altro (Ratzinger), con distacco e riprovazione. Ma impareranno ad accettarsi e a volersi bene. Questo è quanto.
I due papi non è dissimile dai tanti altri biopic che affollano le nostre “playlist” simpatizzanti per il Cinema anglofono, a volte più cinefile, altre meno. Perché? Se il meccanismo dell’incontro-intervista (qui replicato in forma più biunivoca e meno passiva) mette in moto la praxis della macchina del ricordo e della ricostruzione dei fatti, Meirelles, con i suoi piani sghembi, il montaggio frammentario e a tratti caotico, riesce per qualche tempo a farcelo dimenticare: cioè a farci dimenticare quella sostanziale unità di struttura linguistica che solo per trasformazione assume connotati meno tradizionali. Infatti I due papi porta in scena la storia delle origini dell’Eroe argentino destinato a fare la differenza e a spezzare i legami con il passato conservatore e scolastico dei vertici ecclesiastici. Senza indagarne o sondare le motivazioni, con quell’alone di mistero fumoso che attornia la chiamata di Bergoglio e quel pudore che si vorrebbe metafisico nel ripercorrere la storia di un Uomo. Mentre cresce il Mito si ammorbidisce Ratzinger, giusto per farcelo amare poco prima delle sue veramente rivoluzionarie dimissioni. Bergoglio non capisce, «Gesù non è sceso dalla croce», non è certo venuto meno alla sua fine di martire: un Papa non smette di esserlo perché un’istanza intima ed egoista del proprio Sé ha deciso per lui. Si intuisce che il progressismo bergogliano ha pur sempre un limite – quel giusto limite che ci permette di trovare in lui una condotta, una missione irreprensibile, tutta la moralità di cui la Chiesa ha bisogno. Ecco emergere il peccato, tutto sommato veniale, di Anthony McCarten (a cui si deve il soggetto di questo e altri recenti biopic): I due papi legge la Storia sotto un registro pop – quale in effetti è, nell’immaginario contemporaneo, l’icona di Papa Francesco – procedendo a una santificazione costante e progressiva dell’uomo (semplice, che storce il naso davanti ai canederli dell’austero tedesco) accentuata dal confronto con l’Alterità debole, sorpassata, obsoleta di Benedetto XVI. All’archetipo del Padre si sostituisce quello della Madre, per questo accogliente, limbico, ovviamente mistificato. Ma così facendo si attua una radicalizzata e radicalizzante semplificazione della realtà, per ridurla a due poli estremi dove è più facile comprendere la simpatia, l’affabilità del nuovo candidato al Ruolo – che è persino riluttante, da quanto è modesto – piuttosto che i dogmi scomodi, bui, inudibili del Potere. Resta un film prova della sua Santità, che è già tutta lì, pronta per diventare icastica; nel momento in cui Francesco appare nella vita di Joseph, a quest'ultimo si riavvicina Dio. Ma di spirituale non c’è niente.
Nella visione conciliatoria di una Storia sottile, Ratzinger cade “in vacuo” come oppositivo strumentale, la cui estraneità dal mondo e dalla pragmatica si risolve nella disconoscenza musicale dei Beatles e nella chiusura autarchica nella propria cultura tradizionale. Beatles come simbolo: Bergoglio globalizzato, cosmopolita, pop-olare, unificante, ci distanzia dalla secolarizzazione minacciata dal contemporaneo; Ratzinger emblema del tramonto del Vecchio Mondo, legato a passatismi troppo lenti per correre veloce con l’internet. La contrapposizione ideologica incontra una riduzione del significato plateale e con essa la mortificazione non così velata del bagaglio di studi teologici del Cardinale di cui, ovviamente, non abbiamo più bisogno. Con questo non si vuol ridurre la portata storica del passaggio, né adombrare l’apertura irrimandabile (e incompleta) che ha coinvolto la Chiesa con(testualmente) l’elezione di Bergoglio. Tuttavia, Meirelles e McCarten alla riflessione di una prospettiva inedita preferiscono l’abbraccio caloroso del sempiterno leitmotiv biografico, il “cine-romanzo” che ricalca una storia già conosciuta, sufficientemente immaginaria da convogliarsi verso esigenze di racconto (il doppio, l’anzianità, l’attualità) e sufficientemente verosimile da non darsi in toto alla fanta-storia. E allora il film si può finalmente leggere come una celebrazione, certo monolitica, di Francesco, un para-testo che contribuisce a solidificarne la fama con lo sguardo buono di un Jonathan Pryce vertiginoso (mentre Anthony Hopkins di fatto riabilita l’immagine di Ratzinger con una performance mastodontica). Esigenze di spettacolarizzazione a cui, tuttavia, non perdoniamo l’uso un po’ beota del motivetto di Bella ciao, in odore di sorrentiniani ossimori. Tanto a dirvi: parliamo di tutto e di niente.