Kate & Leopold
I fuochi d’artificio della commedia romantica praticata con classe: “Kate & Leopold” ci ricorda perché è un genere di cui è necessario sentire la mancanza.
Siamo a cavallo tra il Novecento e i primi Duemila, una manciata di anni che sono lì a suggellare gli ultimi, enfatici respiri (e sospiri) di un genere che sarebbe stato infelicemente, e ingiustamente, da lì a poco trascurato: la rom-com, la commedia romantica, il film sentimentale. Probabilmente più del periodo classico americano dei ‘40, quegli anni videro il praticare con entusiasmo la formula, un passaggio quasi tassativo che non escluse neppure i grandi Autori, mentre di solito si scomodano, e a ragione, i nomi di specialisti quali Nora Ephron, Garry Marshall, Richard Curtis, Nancy Meyers, insieme a registi più trasversali come Wayne Wang, Adam Shankman, Mark Waters, P. J. Hogan, ma la lista correrebbe all’infinito. A legger le loro filmografie si certifica quel passaggio, non del tutto indolore, dalla forma classica della commedia romantica alla commedia tout-court che più spesso è film comico (o magari musical, o magari ibrido). Già nel 2006 Nancy Meyers poggia la pietra tombale del genere con L'amore non va in vacanza, e tutto il resto vedrà progressivamente la perdita d’importanza, sia drammaturgica che concettuale, dell’intreccio sentimentale, e con esso un modo non equiparabile per evidenziare problematicità e divari dei rapporti tra i sessi. La commedia romantica è, soprattutto, una superlativa istantanea del tempo in cui viene prodotta; assorbe cioè al suo interno, con grossa evidenza, i leitmotiv, le criticità e, più semplicemente, le caratteristiche di un certo clima “psicologico” da cui assurge; allargando alla produzione in toto, risalendo dai Novanta fino alla metà dei primi Duemila, è un genere che risponde a determinate necessità che ora l’industria non sente più, sovraccarica com’è di universi transmediali, mentre da una prospettiva culturale è sintomatica di una capacità e tendenza ancora naif, pre- crisi economica, di credere ciecamente, per un’ora e mezza, allo sbocciare di un nuovo Amore. Cioè che un film intero potesse reggersi su questo assunto.
Ci credeva Peter Weir quando nel 1990 girava Green Card - Matrimonio di convenienza, Barbra Streisand nel 1996 con L’amore ha due facce, James Mangold nel 2001 con Kate & Leopold. Quel Mangold di cui, a ragione, si elogia frequentemente la capacità di passare con agio dal dramma al thriller, al biopic ante-litteram (con tanto di filiazione parodica a decretarne la fama di classico, ovvero Walk Hard: The Dewey Cox Story di Kasdan-Apatow), al western, all’action, a quel Wolverine che si reggeva perfettamente in piedi da solo: Mangold nella migliore tradizione dell’autore americano che, lavorando per gli studios, si fa trasparente nella poetica e nel montaggio, ergendo silenziosamente la propria architettura cinematografica in funzione, anzitutto, della narrazione.
Kate & Leopold rappresenta un esempio lampante di questo credo e, al contempo, di un modello frutto di anni di raffinazione della partitura romantica, della rom-com fatta e finita. L’elemento fantastico che molto spesso innesca la commedia di quegli anni e che qui contraddistingue la vicenda di Kate (Meg Ryan) e Leopold (Hugh Jackman), i quali riescono ad incontrarsi grazie a quella che sembra un’apertura nel continuum spazio-temporale, viene qui prelevato dallo stesso filone della commedia sentimentale/metafisica dei Quaranta senza drastiche variazioni. Il genere è poi un terreno encomiabile per mettere in azione il sapere, mai troppo pletorico, della sceneggiatura perfetta, quella che sa di dover partire dal consolidamento dei caratteri sui quali modellare il loro arco.
Mangold non si esime dall’accreditarsi in questo senso: Kate & Leopold descrive la figura di donna che per eccellenza qualifica quegli anni (e sulla quale si potrebbero scrivere saggi); in carriera, disillusa d’amore, un po’ castigata, sferzante, ancora non del tutto emancipata professionalmente ma essenzialmente sola. Il vero detonatore metaforico (e fattuale) è però il corpo di Leopold, duca di Albany, che dal 1876 viene trasportato in una New York del presente di cui, suo malgrado, riesce a mettere in luce le stranezze e, al nocciolo, la decadenza, l’utilitarismo, l’imperturbabilità. I modi apparentemente così affettati di un nobiluomo d’Ottocento, che però credeva nel positivismo della scienza e della tecnica (ma, fuori dal suo tempo, non nella sistematicità del matrimonio combinato) fanno stridere, deflagrare la rozzezza e l’aridità dei costumi della modernità. Il passato “obsoleto” di Leopold è quello, nostalgicamente, di un mondo che costruiva per reggere al trascorrere del tempo, concetto di cui egli avrà la prova osservando intatto, secoli dopo, il ponte di Brooklyn in tutta la sua monumentalità. «È un miracolo», dice, allo spazzino, Leopold. «Quello? Quello è solo un ponte», ribatte il passante. Il passato “ampolloso” è quello in cui il corteggiamento passava, al di là delle formule fisse, attraverso la trasparenza, la dichiarazione degli intenti amorosi come dogma sociale, sì, ma per prima cosa come sigillo di correttezza e onestà d’intenzione; prassi di cui i “tempi moderni” hanno perso cognizione, tutt’improntati al raggiungimento dello scopo, della preda a tutti i costi, furtivamente e furbamente. Il paradosso, certo, di un’epoca in cui con i gesti si tendeva a portare gran rispetto a una “signora”, ma nei fatti la si riteneva subordinata a un mondo chiuso appannaggio degli uomini. Le avance sessuali che il capo di Kate le rivolge durante una cena “di lavoro” sono ritenute da Leopold inaccettabili: e com’è che per anni ad esse ci siamo abituati? Le diramazioni eventuali sul tema coglierebbero una protagonista femminile passivamente succube del meccanismo maschilista, mentre Leopold insorge, impetuosamente, a difendere il suo onore. Messe in scena di distanze d’epoca in una messa in scena d’epoca, si direbbe. Ma gli spunti di riflessione sono molteplici: la normalizzazione dell’abuso di potere viene, nuovamente, fatta esplodere dall’ospite inatteso. Persino la colta arte oratoria di Leopold sembra riempire un buco nella prassi pubblicitaria che, in tutti i modi, dimentica di quella “trasparenza”, cerca di ingannare il consumatore tramite le regole della persuasione. Tuttavia l’intelligenza di Mangold sta nel rivisitare alcuni di questi tratti storici desueti, rovesciarli nel presente e trarne un metro di paragone per la triste insensatezza che caratterizza il quotidiano: ciò che si è perso e che, riadattato alla consapevolezza della contemporaneità, fornirebbe il tassello mancante a una società veloce, vorace e rottamante. Non solo: potrebbe essere la cura per i cuori sgualciti.
C’è persino un po’ di differenza di classe nello scontro tra le due epoche: Leopold, aristocratico, non può accettare di prestare il suo servizio per uno scopo poco nobile come quello di sponsorizzare un prodotto dal gusto infimo; Kate, invece, «è tutta la vita che deve pagare le bollette», ed è per questo che, ormai agilmente, non ha più tempo per gli scrupoli della morale. Così a Leopold non dispiace, e neppure a Kate, di ritornare indietro nel tempo, al suo tempo, e di rimanerci, dopo esser stato libero di innamorarsi, oltre i doveri delle mosse calcolate della sua classe sociale. Proprio da quel ponte indistruttibile, segno di un’era grande, Kate si getterà per compiere il salto temporale. E allora Kate & Leopold diventa un’opera su ciò che resta, perché tutto resta, e di esso rechiamo gli invisibili segni, in un flusso unico indistruttibile, ma invisibile ai più. Una sola, allora, la costante ovvia tra i secoli: l’inventore, il creatore di nuovi significati, lo scienziato (Leopold nell’Ottocento inventa il prototipo dell’ascensore, Stuart vede i wormhole), relegato e incompreso. Come un cane, cieco ai colori, che vede un arcobaleno.
Un’intuizione narrativa, su tutte, per sottolineare la permanenza, la continuità del Tempo: la fotografia come strabiliante certificatrice di verità, come estensione mcluhaniana di sé, come oggetto in grado di travalicare lo spazio/tempo. In un certo senso, Kate & Leopold è anche un film che ne celebra l’assolutezza, il predominio tecnico, il suo essere punto zero per ogni possibile scoperta. Stuart fotografa un’altra epoca, con un mezzo così piccolo da esser quasi impercettibile, eppure viene visto, proprio da un “inventore” come lui. E su quelle stesse fotografie rimane impresso un corpo, quello che l’occhio umano non ha colto: Kate è già lì, nel futuro come nel passato, nella profondità abitata catturata dallo sguardo meccanico. Per dirla con Walter Benjamin, anche qui la fotografia spinge chi la guarda «verso un bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro».