The Front Runner - Il vizio del potere
Il film di Jason Reitman racconta la parabola mediatica del candidato presidenziale Gary Hart per riflettere sul rapporto tra vita pubblica e privata, ma non riesce ad approfondire con lucidità temi di attuale e stringente importanza.
Probabilmente Gary Hart sarebbe stato un ottimo presidente USA. Avrebbe potuto cambiare la storia del proprio Paese, influenzando non poco con la sua elezione il corso dei futuri decenni politici fino ai giorni nostri. E invece fu proprio l’incapacità di leggere i mutamenti del proprio tempo a determinare la sua sconfitta. Senatore democratico del Colorado in corsa per le elezioni presidenziali, intellettuale dai saldi principi etici e dall’incrollabile idealismo, nonché candidato favorito dai sondaggi, Hart vide sfumare la propria corsa alla Casa Bianca a seguito di uno scandalo sessuale che nel 1987 travolse la sua vita e la sua carriera, quando fu accusato dal «Miami Herald» di intrattenere una relazione extraconiugale con la giovane Donna Rice.
Con The Front Runner - Il vizio del potere, attraverso la parabola mediatica di Gary Hart (Hugh Jackman), Jason Reitman fotografa un momento di passaggio fondamentale non solo per la politica americana ma soprattutto per l’evolversi della sensibilità occidentale sul rapporto tra dimensione pubblica e privata. Reitman punta il dito contro una stampa sempre più cinica e approssimativa, colpevole di avere nutrito e assecondato senza scrupoli l’ingerenza della vita privata in quella politica, trasformando il giornalismo più qualificato in una caccia all’ultimo scandalo. E in tempi come i nostri, in cui la giustizia mediatica prende spesso il posto di quella legale, in cui - immemori della lezione di Céline - si tende a condannare l’operato artistico di un autore in base alle nefandezze commesse da quest’ultimo mentre paradossalmente l’America assume il volto contradditorio di Trump, la storia di Hart avrebbe potuto diventare il veicolo per un’interessante, persino scomoda riflessione su questi temi, ben al di là del mero contesto politico di riferimento. Ma in The Front Runner mancano a Reitman quella grinta e cattiveria dimostrate in film come Thank You for Smoking o Tra le nuvole, uno sguardo più deciso che avrebbe potuto giovare al film donandogli una maggiore lucidità. Il racconto finisce piuttosto con il ridursi a un’operetta informativa, densa di didascalismo per quanto scorrevole, che si limita a muovere sacrosante accuse alla gogna mediatica senza trovare però la capacità di riflettere con incidenza intorno a un sistema su cui tuttora, e forse mai come ora, dovremmo interrogarci.
Hugh Jackman convince nella parte della vittima illustre Gary Hart, con una recitazione contenuta. Convince meno invece la scrittura del personaggio, tanto da risultare fin troppo calcato nella sua ingenuità e nel suo idealismo a tratti ottuso. Le esigenze sono però chiare e ammissibili: contrapporre una visione anacronistica del fare politica a un mondo in cui – quando fa comodo – i panni sporchi si lavano soprattutto in pubblico, perché «le telecamere sono ovunque». Non a caso, con Reagan, l’immagine del politico come divo hollywoodiano si era già concretizzata e la Guerra del Golfo, la prima in diretta TV, scoppiò ad appena tre anni dallo scandalo Hart.