Speciale MUBI / Un sogno lungo un giorno
Oltre l’immagine elettronica, il controtipo negativo di “Apocalypse Now” è un film che anticipa le logiche del digitale e la scissione iperreale tra l’oggetto e la sua rappresentazione.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Il concetto di «epidemia dell'immaginario» risale a Petrarca e al suo De secreto conflictu curarum mearum, ma è stato ripreso in tempi recenti da Žižek nel suo omonimo saggio. Parliamo di un ordine simbolico, formale e astratto che trascende la realtà ma al contempo ne sovrintende i processi. In altre parole, un «punto fantasmatico» o «corto circuito fantasmatico» (Žižek) che non solo governa il reale ma ne diventa anche il contrappeso critico, la culla di Giuda che ne penetra i complessi meccanismi. In tal senso, potremmo pensare all'iperrealtà dell'immagine cinematografica non tanto come a una reazione all'eccesso di rappresentazione che opacizza la realtà quanto come inevitabile conseguenza della prepotente emersione della sfera simbolica.
Forse non è un caso che dopo il descensus ad inferos di Apocalypse Now, Francis Ford Coppola realizzi un progetto in apparenza antitetico come Un sogno lungo un giorno. Il prometeico titanismo di Apocalypse Now descriveva, con ineguagliato empito visionario, lo stato allucinatorio-schizofrenico di una realtà sempre più inafferrabile e impossibile da redimere se non attraverso l'archetipo della caduta miltoniana nel «Paradiso perduto» (Kurtz come Satana, Willard come l'omerico Odisseo). Il «piccolo» itinerarium cordis di Un sogno lungo un giorno, invece, riparte proprio da dove finiva il capolavoro precedente. La realtà è ormai diventata una scena fantasmatica. Un luogo immaginario. Uno strumento che si pone a servizio del racconto e non viceversa. Se Apocalypse Now rappresentava hegelianamente la «fine della storia», Un sogno lungo un giorno, che ne costituisce il controtipo negativo, è invece lo «schermo fantasmatico» che si spalanca simbolicamente nel regno della tecnica. Se Apocalypse Now era una sorta di concretizzazione figurativa dell'anti-razionalismo e del sublime romantico, Un sogno lungo un giorno si attesta come chimera iperrealista (per una volta, il titolo italiano introduce un riferimento onirico che non tradisce il senso dell'opera) dove è impossibile riconoscere lo statuto di quanto si vede: illusione, fantasticheria, immaginazione. Protetto, non a caso, dall'involucro del genere più irreale ed escapistico dell'intera storia del cinema hollywoodiano (il musical) e allo stesso tempo ambientato nello scenario che, Baudrillard docet, è diventato ormai epitome della «scomparsa della realtà» (Las Vegas, sorta di «città-simulacro»), il film poggia su una struttura narrativa elementare. Proprio mentre festeggiano il loro quinto anniversario (che cade nel giorno dell'Indipendenza), il meccanico Hank e l'agente di viaggi Frannie litigano e si lasciano. Poco dopo, entrambi incontrano e trascorrono la notte con una persona che sembra la materializzazione del partner perfetto: per Hank è la sinuosa circense Leila, per Frannie il fascinoso cameriere Ray. Tuttavia, il mattino successivo si ritroveranno entrambi di nuovo insieme.
Come si può facilmente dedurre da questa breve esposizione della sinossi, Un sogno lungo un giorno si muove sull'ambiguo crinale che separa «immaginario» e «realtà»: è impossibile scindere i loro rispettivi domini. Leila e Ray sono il parto della mente di Hank e Frannie? Sono una fantasia? Oppure fantasmi che si muovono in un mondo dove la realtà è sempre più distorta e impercettibile? Per raccontare questo scacco percettivo, Coppola crea un mondo illusorio, pienamente artificiale («falso»), estaticamente incapsulato tra le pareti del set. Quest'ultimo non è più semplice contenitore prospettico, ambiente o sfondo, ma diventa spazio di possibilità e disponibilità: il set muta volto e cambia continuamente di segno e significato, è un «mondo a parte», organico (non esistono vuoti, cesure o separazioni) e, al contempo, l'espressione di una «visione del mondo» che orienta lo sguardo. Allo stesso tempo, è luogo di convergenza, punto d'approdo di tutti gli orizzonti immaginari: è il microcosmo al quale i personaggi fanno corrispondere le manifestazioni del proprio mondo interiore. Sbarrati i cancelli del cielo, siamo ora in un territorio che non è solo (ovviamente) lontano dalle utopie neo-hollywoodiane ma anche oltre la retorica postmoderna (ma, in fondo, già heideggeriana) del mondo diventato immagine. Perché qui sussiste un ulteriore passaggio: non solo il mondo è diventato immagine, ma questo ideale «videodrome» crea a sua volta nuovi mondi. Un'ideale prolificazione potenzialmente infinita che non si trova più solo nella mitopoiesi, ancora epico-omerica, delle lucasiane «guerre stellari» (dove la «germogliazione» di mondi è ancora tutta diegetica) ma anche all'interno del principio stesso di ri-figurazione della realtà. Ci troviamo oltre l'immagine elettronica (che pure servì al pionieristico Coppola per previsualizzare molte delle sequenze del film), ovvero un'immagine prodotta attraverso un processo di sintesi che glorifica anzitutto il dispositivo che la produce (si faccia il confronto con il successivo Blade Runner), e già in una prospettiva percettiva in qualche misura «digitale». Se l'immagine elettronica interrogava infatti lo statuto di realtà della rappresentazione e, allo stesso tempo, metteva a nudo la propria natura di manufatto «tecnico» e quindi non naturale, l'immagine digitale crea un nuovo ordine a partire dalla presa di coscienza di questa separazione tra la rappresentazione e l'oggetto rappresentato. L'immagine digitale non s'adegua più al mondo ma produce continuamente nuovi mondi. Non è più solo strumento ma – come perfettamente ha compreso David Lynch – un'ulteriore dimensione di realtà che interagisce con quanto avviene all'interno e al di là dello schermo.
Con un'evidente forzatura, si potrebbe quasi dire che ritrovare Un sogno lungo un giorno all'interno del catalogo streaming digitale di MUBI sia per certi versi un atto di debito revisionismo storico. Quando uscì, il film si rivelò un fragoroso insuccesso, fu disprezzato, sbertucciato o, peggio ancora, avvolto dal manto funebre dell'indifferenza. Certamente, non è mai stato pienamente capito (ammesso che fosse possibile farlo). Ma a quasi quarant'anni dalla sua uscita si può finalmente inquadrarlo nella giusta prospettiva. E leggerlo quindi come il portavoce di un mondo dove tutto (i sentimenti, le emozioni, i sogni, i desideri) è transitorio, fugace, destinato alla rapida obsolescenza. Dove la dimensione del presente sembra non esistere più, persa in un flusso di stimoli, di link, di possibilità. Di mondi. E dove la libertà di scelta diventa vera dichiarazione d'indipendenza.