Terrore alla 13ª ora
Il brillante esordio di Coppola, nato nel laboratorio di Roger Corman, cattura il regista mentre cerca un proprio stile al di sopra delle esigenze produttive, tra studio system, schegge di New Hollywood e prodromi al cinema dei nostri anni ’10.
Nel 1962 Roger Corman si ritrova per le mani ventimila dollari avanzati dalla lavorazione de I diavoli del Grand Prix. Vorrebbe usarli per girare un progetto in proprio ma poi decide di investirli per sostenere l’esordio del suo giovane assistente, l’allora ventiquattrenne Francis Ford Coppola. Terrore alla 13ª ora (in originale Dementia 13) nasce qui, nutrito, certo, dal tipico senso dell’avventura di Corman ma anche da un inusuale intuito imprenditoriale, forse fuori posto nel suo cinema di confine, che porta lui e Coppola a inseguire il successo di Psycho con uno script che coinvolge una misteriosa famiglia aristocratica, il fantasma di una bambina morta annegata, un feroce assassino e i tentativi della giovane Louise di mettere le mani su una cospicua eredità. Il risultato è un’opera prima che si muove in una zona contraddittoria, tra i prodromi anarchici della New Hollywood e un’osservanza quasi maniacale delle regole di quello studio system che Corman pareva contrastare; un perimetro su cui sarà bene fermarsi a riflettere un momento, per meglio cogliere la natura chiaroscurale dell’opera e del periodo.
Se è indubbio il ruolo storico e innovativo della Corman factory, lo scarto sintattico che i suoi film offrono nei confronti del cinema classico, è altrettanto vero che il Sistema Corman, dal punto di vista produttivo, mostri diversi spazi opachi. All’inizio degli anni ’60 il cinema di Corman è infatti diventato un brand, un insieme di prodotti accomunati da approcci, scelte, spunti, idee ricorrenti che gli spettatori amano ritrovare in ogni sua pellicola. Roger Corman agisce dunque, nel caso di Terrore alla 13ª ora, come un executive, un’entità che plasma i progetti sostenuti all’insegna di un’estetica riconoscibile, capace di garantirgli continuità e fidelizzazione da parte degli spettatori. Da questo punto di vista, tra l’approccio di Corman e quello di un responsabile di uno Studio di quegli anni, non ci sono troppe differenze. L’esordio di Coppola rientra pienamente in questo meccanismo e risulta quindi un film di Corman per procura; non stupisce che il produttore sarà insoddisfatto del girato finale e incaricherà il giovane Jack Hill di alcuni reshoots.
Fin dal primo giorno di riprese il futuro regista de Il Padrino si ritrova dunque a contatto con una griglia definita di spunti e strutture in cui muoversi, ma decide coraggiosamente di lavorare tra le maglie della sceneggiatura di ferro alla ricerca di un suo stile. Ne risulta un film che declina in maniera personale il gotico cormaniano attraverso un inedito filtro di desolazione, optando ad esempio per una sequenza iniziale straordinariamente moderna, giocata sul silenzio e sull’indifferenza della natura verso le faccende terrene. Nel momento in cui si ritrova costretto a giocare con i cliché del genere, come il brand Corman gli impone, tratta poi l’orrore come un’entità tangibile, concreta, legata alla sfera psicoanalitica, e in questo senso colpisce quanto il film sia, almeno nella sua prima parte, uno straordinario esperimento di metatestualità, pronto a svelare l’artificiosità dei meccanismi del genere e a mostrare le conseguenze delle loro suggestioni sul pubblico. Non solo. Il giovane esordiente, a tratti, riesce addirittura a evadere dalla gabbia di Corman. Nella sequenza subacquea che coinvolge Louise, ad esempio, Coppola mutua l’approccio alla messa in scena e la gestione dei tempi dai corti di sexploitation con cui si è fatto le ossa, ignorando le “buone pratiche” del suo produttore. Al contempo, nel momento in cui dialoga con la tradizione, il regista spesso ignora Corman e opta piuttosto per dei riferimenti più personali, spostandosi tra il Dracula di Bram Stoker (in anticipo di trent’anni rispetto all’incontro “ufficiale” con il vampiro) e il cinema di Mario Bava, a cui Coppola forse guarda quando spazializza le sequenze degli omicidi, alla ricerca di un’atmosfera contemplativa.
Terrore alla 13ª ora colpisce dunque per la grana contemporanea che lo anima, tanto linguistica quanto produttiva. Coppola, all’esordio, pare costantemente al di là e al di qua di una linea, tra il regista operaio dello studio system e il prototipo dell’auteur ribelle dallo stile riconoscibile della New Hollywood, risolvendo la dicotomia tra i due ruoli con una sintesi consapevole e autonoma che anticipa la figura dell’autore ingaggiato, oggi, da major come Warner e DC per rinverdire i propri franchise; il tutto mentre Corman inaugura una certa accezione di executive che resiste, invariata, a più di sessant’anni di distanza. Il film dimostra, in sostanza, quanto il cinema esterno agli studios e quello ortodosso condividano in realtà uno spazio comune più ampio di quanto sembri, una dimensione che, a margine, perdura, rinnovata, nel cinema degli ultimi vent’anni, come si è già intravisto e come dimostrano realtà commerciali come la Blumhouse. L’archiettura è sempre la stessa, a cambiare sono le nicchie di mercato più o meno ampie o i target a cui ogni prodotto fa riferimento.
Il primo, promettente lungometraggio di Coppola invita a una ripensamento del nostro dialogo con il prodotto filmico, e conferma che la vera rivoluzione della dimensione cinematografia avviene quando una mente aperta prova a ripensare da zero una grammatica di riferimento e guarda con curiosità alle sue scoperte, al di là dei finanziamenti, delle ingerenze, del volere degli spettatori.