Frank
Un film spiazzante e spesso sorprendente in cui la stranezza diventa sentimento
Cosa succede quanto il rapporto tra talento – o la sua assenza - e stranezza viene dilatato alle soglie della patologia? È questa la domanda cui prova a dare una risposta Frank di Lenny Abrahamson, anche se non in modo diretto ma con modalità surreali e stranianti, che però non sono né ottuse né tantomeno barricate dietro anomalie autoreferenziali. E’ infatti paradossalmente un film sulla comunicazione, Frank. Sulla comunicazione diretta tra pubblico e artista, così complessa e insondabile per essere colta da chiunque in un sol colpo, ma anche, più banalmente, su quella tra due esseri umani, sugli ostacoli esterni o autoindotti che tra di essi possono frapporsi.
Il protagonista di Frank, interpretato da un Michael Fassbender che recita negando completamente il proprio volto fatta eccezione per l’ultimo quarto d’ora, vive e si relaziona agli altri con sempre indosso la testa di cartapesta di un pupazzo antropomorfo. Una soluzione spiazzante e d’impatto che nel film, cosa che è sicuramente un pregio, nessuno sente il bisogno di motivare troppo. E’ piuttosto un macroscopico vezzo metaforico - si pensi all’uso analogo che ne hanno fatto in Italia Davide Toffolo e i suoi bravissimi Tre allegri ragazzi morti - le cui cause sono lasciate all’immaginazione dello spettatore e i cui effetti non sono da rintracciare fuori scena o in chissà quale traumatico passato negato, ma direttamente nel tessuto del film, nelle sue eccentricità e nei suoi sbalzi. Conformi in tutto e per tutto a un’opera piccola e soprattutto sfuggente, tanto allo sguardo di chi le si avvicina quanto alle semplificazioni di grana grossa, eppure proprio per questo vitale, perché la sua afasia e il suo disadattamento stilistico, costantemente alla ricerca di un baricentro che non arriva mai, sono gli stessi dei suoi personaggi.
Un film perfino sperimentale e lunare, Frank, in cui la jam-session – intesa come imprevedibilità e umoralità costante - è uno stato della mente, relativo all’emotività paranoide del protagonista ma anche a quella del personaggio di Domhnall Gleeson, Jon, ingaggiato per una serata dalla band di Frank, i Soronprfbs (nome volutamente impronunciabile) e da quel momento sempre più vicino all’idea di diversità postulata dai suoi nuovi colleghi. Ma anche, naturalmente, al loro stile musicale, caratterizzato da un minimalismo autistico ossessivo, dal quale traspare un senso di appartenenza a una piccolezza così orgogliosa da non poter dialogare in alcun modo con altri scenari, forse nemmeno con se stessa. E’ la stessa matrice psichica, in fondo, che determina la schizofrenia di Frank e che non lo abbandona mai, confermando una tendenza spiccata del film di Abrahamson a parlare una lingua che è solo sua, insensibile ad altri codici espressivi che sembrano non appartenergli e disposta a lasciarsi permeare solo da ciò che riguarda più da vicino i suoi personaggi insoliti. Quasi a voler dimostrare come le passioni dirette che riempiono le loro vite possono ancora essere in grado di raccontare delle psicologie così sfaccettate meglio di un movimento di macchina particolarmente visibile o di uno snodo della trama ad effetto. Le sonorità che affollano i tanti momenti fuori di testa di Frank, dei suoni segmentati e irricevibili così lontani dall’essere commerciali da fare quasi tenerezza, contribuiscono a tale disegno complessivo e sono il simbolo perfetto di un film in cui bizzarro fa rima con struggente, come se solo la stravaganza, molto meglio e molto più di qualsiasi altra caratteristica umana, potesse rivendicare una sensibilità capace di porsi rispetto al mondo esterno senza paraurti e protezioni di nessun tipo.
Ragion per cui Frank non poteva terminare diversamente da come si conclude: con delle lacrime, quelle di un protagonista finalmente a nudo e a cuore aperto, che narrano di ferite più profonde, di cui è impossibile parlare ma che bisogna tentare almeno di mettere in musica, per provare dare ordine a un groviglio altrimenti senza via di uscita o possibilità di risoluzione. In quell’I love you all finale, urlo disarticolato e totale di un musicista scalcagnato e schizofrenico divenuto a sorpresa rocker maudit, si celebra la resa incondizionata di chi si arrende alla propria stessa inadeguatezza trasformandola in sentimento, in amore sottilissimo per i più piccoli dettagli del quotidiano, anche i più stralunati. Prove di una felicità impossibile, che se non nell’universale almeno può emergere in alcuni particolari, in selezionatissimi scampoli di vita vissuta. Oltre ogni disagio.