L'uomo di neve
Sono la frammentazione e la distanza tra le singole sequenze a trasformare il terzo film di Alfredson in un interessante ibrido che spezza lo schema del poliziesco classico.
L’orizzonte del film noir e del modello poliziesco mescola istanze disomogenee: da un lato la concatenazione degli eventi e dell’investigazione; dall’altro l’emergenza di un eroe complesso, che si misura con la problematicità e l’inconscio dei personaggi. La detective story opera attraverso congetture ed ipotesi interpretative, ed è impegnata a trovare una verità quanto più oggettiva possibile in un mondo ambiguo ed oscuro. Ogni racconto poliziesco presenta, in genere, una struttura bivalente, in quanto da un lato implica la scoperta e la risoluzione di qualcosa di nascosto e dall’altro procede in un mondo opaco in cui gli stessi valori di riferimento sono problematizzati. Il percorso narrativo di una detection, quindi, riesce ad unire una narrazione rigorosa alle ambiguità e oscurità del mondo.
Ne L’uomo di neve di Tomas Alfredson, tratto dall’omonimo bestseller dello scrittore norvegese Jo Nesbø, si insinua qualcosa di ancora più contraddittorio. Un’eccedenza di senso generata da un particolare uso del montaggio e da risvolti narrativi che fungono da mise en abyme del senso ultimo del film.
Harry Hole (Michael Fassbender) è un detective della polizia di Oslo, con ex compagna e un figliastro a cui badare. Ma è anche un bevitore compulsivo, solitario e dotato di notevoli intuizioni investigative che, però, il più delle volte, vengono affogate negli eccessi alcolici. Hole viene coinvolto nel caso dell’uomo di neve, un serial killer che scompone i corpi delle sue vittime, prevalentemente donne sole (o il cui matrimonio è in crisi) con figli. L’omicida colpisce di preferenza quando nevica e lascia sul posto un pupazzo di neve. Il caso sembra donare nuova linfa ad Harry Hole, che si troverà partecipe della vicenda in prima persona.
Nonostante il mancato compimento degli archi narrativi, che si affastellano e depistano lo spettatore da una concreta risoluzione dell’enigma, ed una evidente serie di falle nella gestione delle scene action, il terzo film di Tomas Alfredson merita la difesa più strenua da parte di chi scrive. Se il compito del genere poliziesco è semplicemente quello di imporre un ordine sovrastrutturale nei confronti di un universo caotico popolato da personaggi contraddittori, il risultato de L’uomo di neve può essere definito fallimentare. Eppure, tra una delicata ed elegante panoramica sui paesaggi naturali norvegesi ed il primo piano di una testa decapitata e prossima al congelamento, viene puntualmente generato uno scarto che trasforma l’intero film in un’ulteriore vittima del killer che ne è protagonista. Le singole sequenze sembrano vivere di vita propria, conducendo un’esistenza a sé stante, come monadi separate dall’esigenza di compimento teleologico del racconto. Piuttosto che unire, il montaggio di Thelma Schoonmaker distanzia i tasselli che compongono il puzzle, alla ricerca di una coesione narrativa che viene puntualmente infranta.
Sono la frammentazione e la distanza a creare quella tensione emotiva che imperversa lungo tutto il corso del film e a donargli una parvenza metafisica, oltrepassando di slancio la farraginosità di uno script poco collaudato. Ogni aspettativa schematica viene infranta e poco importa che il risultato finale sia inferiore alla somma delle singole parti, dopo due ore in cui è proprio dalle singole unità che nasce la raggelante forza di un film che fa della forma la propria ancora di salvezza.