Beatrice è un meccanico romano. Vive e lavora da anni nel quartiere di San Giovanni ed è una grande amante di gare di rally. È un transessuale e vive con Marianna, la badante rumena dell’anziana madre, e con Daniele, il figlio della compagna. Beatrice, il cui nome all’anagrafe è Pino, fa da padre a Daniele ed è amata da Marianna in tutta la sua doppiezza, il suo essere sempre un Pino/Beatrice.
La regista Elisa Amoruso ha intelligentemente intuito il potenziale cinematografico che una storia come questa conteneva e poteva esprimere. Se appare evidente la forza con la quale questa famiglia davvero “fuoristrada” si contrappone al cinema medio italiano (sempre un fedele specchio dell’altrettanto media società italiana) bisogna anche evidenziare la forza puramente cinematografica di Pino/Beatrice, la sua verve, la sua simpatia, la sua capacità di dimenticarsi della macchina da presa. Aldilà delle voci fuori campo dei protagonisti che commentano e accompagnano le immagini del loro quotidiano, sono i duetti tra Pino/Beatrice e Marianna a dare vita al film, una pura forza performativa la loro e l’incarnazione di una sorta di odierna coscienza popolare, davvero capace di bucare lo schermo. I dialoghi tra la coppia sui pianeti, con la protagonista che sottolinea l’ignoranza di Marianna, gli scambi di baci, le loro manifestazioni d’amore, hanno una qualità umana (qualcuno direbbe “una verità”) semplicemente straordinarie. E il racconto del matrimonio in Comune, con l’impiegata che si rifiuta di sposare la coppia ma che, davanti all’evidenza anagrafica di Pino, si dovrà arrendere, (un racconto che la protagonista commenta con “L’abito non fa il monaco!”), riesce davvero a smascherare ipocrisie, pregiudizi, banalità con le quali il cinema continua a raccontare dinamiche simili. E la felice confusione di ruoli che emerge da Fuoristrada, in momenti come quando il figlio Daniele aiuta il padre a disegnarsi le sopracciglia, scardina molte delle ordinarie rappresentazioni della famiglia nucleare italiana.
Elisa Amoruso ha trovato in Pino/Beatrice uno straordinario significante, una forza della natura capace di suscitare l’entusiasmo tanto dei fautori del “cinema documentario” (termine ambiguo con il quale molti vorrebbero indicare un cinema capace di raccontare il reale senza mediazioni) quanto dei sostenitori del cinema come regno della finzione e della manipolazione (tra le altre cose, la vicenda messa in scena riesce anche a sovvertire molte categorie abusate sulle dinamiche di gender e sulla loro rappresentazione al cinema). L’essere “fuoristrada”, bellissimo titolo, della famiglia protagonista si evidenzia ulteriormente nel momento più intimo del film, quando emergono le difficoltà del protagonista nel svolgere il ruolo di padre nei confronti di Katiuscia, la sua figlia biologica: come se ci fosse un’incapacità ad accettare i comportamenti che la società impone come “normali”, a favore di un essere naturalmente extraordinario (termine da intendere sempre rispetto all’ordinario socioculturale italiano). Qualcuno potrà obiettare l’esilità dello stile, l’eccesso di semplicità dell’apparato formale di Fuoristrada: a noi è sembrato invece un lavoro perfettamente coerente, in grado di raccontare dall’interno la storia di Pino/Beatrice, come se la regista volesse farci vedere il mondo attraverso lo sguardo, la sensibilità, l’immaginario della protagonista.
Una delicatezza e un’ingenuità quella di Pino/Beatrice che diventa trascinante quando canta all’amata Marianna “In Ginocchio da Te” di Gianni Morandi. Non esistono immagini belle, ma solo immagini giuste e la regia di Elisa Amoruso, assieme alla fotografia di Giorgio Horn e Martina Cocco, si fa trasparente, si avvicina il più possibile a Pino/Beatrice e riesce a trasmettere con grande forza tutta l’intelligenza, la simpatia, la potenza cinematografica della protagonista. Fuoristrada è davvero una bella sorpresa.