Gebo e l'ombra
L’ultimo film di Manoel De Oliveira è urlo disperato e vitalissimo di chi, a cento anni e passa, crede ancora in un cinema puro che debba raccontare l’uomo e i suoi conflitti interiori
Nessun movimento di macchina, nessuna oscillazione, nessun gioco di fuochi, nessuna inclinazione drammatica dall’asse: quel che rimane è il tempo, non serve altro. Inquadrature frontali, spazi chiusi in cui far vivere e muovere i personaggi, almeno finché non scelgono il fuori campo, il riflesso o l’ombra come condizioni esistenziali. Il cinema dell’ultracentenario Manoel De Oliveira approda a Gebo e l’ombra e subito l’antico fraintendimento del teatro filmato torna alla ribalta. Eppure il film di De Oliveira ha un impianto teatrale ma un linguaggio puramente cinematografico. L’autore, ancora una volta, va alla ricerca di un’essenzialità miracolosa, di una purezza sintattica priva dei vezzi della contemporaneità, totalmente estranea da qualsivoglia moda o corrente. In un mondo che è stato inghiottito dalle immagini e ha finito per mercificare lo stesso pensiero, De Oliveira si oppone a qualsiasi ipotesi di conformismo: debella massa e quantità, ciò che gli interessa è il ritorno radicale e intransigente a quella che una volta veniva definita immagine qualitativa. Si tratta di quell’immagine che, nell’atto stesso di durare, estroflette il suo tempo interno, portando a massima saturazione ogni corpo, gesto e parola. Ne consegue un cortocircuito percettivo in cui è lo spettatore stesso a sentirsi osservato dall’immagine, a non poterla più recepire e accantonare come mero oggetto, ma, al contrario, a doverla considerare come autentico soggetto capace di vederlo. D’altronde i personaggi di Gebo e l’ombra guardano spesso in macchina, come in attesa di un ulteriore ospite nella loro umile dimora.
Ogni inquadratura è concepita come un blocco di tempo, intervallato al massimo da qualche piccolo dettaglio, campo o controcampo, che permette non tanto di vedere più da vicino, quanto di instaurare un equilibrio, una danza di masse che si compenetrano tra loro. Il tempo interno sembra esplodere in rari momenti che convergono spesso con siparietti musicali. O, nel caso finale, con l’inevitabile fermo immagine: il tempo si blocca, si fa cristallo o chimera perduta, assolutizzando quell’unico istante che cambierà per sempre le cose, quel sacrificio esistenziale che può essere solo (pre)detto, perché mostrarne le conseguenze risulterebbe addirittura pleonastico. Negando al climax il suo spettacolare esito, quello di De Oliveira si struttura come il cinema più politico immaginabile, che mette in scena le intenzioni e sfuma le azioni: ciò che interessa al regista sono i caratteri, le idee, le tonalità, i sussurri, ovvero gli uomini, piccoli o grandi che siano. Non si tratta di una monade chiusa in se stessa ma di un cinema da cui traspare il mondo, il nostro mondo. La casa del vecchio Gebo è il luogo di ritrovo di diverse personalità che non fanno altro che parlare, mentre sono consumate, logorate dal tempo. La loro vita scorre come un asse inclinato verso il nulla. Gebo è un contabile, passa le sue giornate a fare calcoli, a risolvere operazioni e riportare cifre: lavora su criteri matematici, che non conoscono errore o menzogna, eppure nella sua vita non ha fatto altro che mentire onde evitare preoccupazioni a sua moglie. La realtà delle relazioni umane si rivela molto più complessa di qualsiasi operazione matematica: gli uomini sono più imprevedibili dei numeri. L’errore umano – che sia morale o immorale – è l’unico in grado di decostruire e ricostruire l’ordine, di modellarlo proprio come si fa con la creta. Ciò che sconvolgerà l’equilibrio sarà il ritorno del figlio Joao che, senza alcuna remora morale, provocherà il disastro della famiglia. Joao è l’elemento disturbante all’intero di una configurazione famigliare equilibrata: da una parte rappresenta l’insinuazione del male, che abita nelle nostre stesse case ed è frutto del nostro stesso sangue, dall’altra è l’avvento improvviso, catastrofico ma rivoluzionario, di un nuovo ordine, che disdice la vacuità di quello precedente. Joao racchiude in sé diversi predicati narrativi: l’anelito a una vita diversa, in cui non si ripetano sempre le stesse cose, il novum che irrompe inatteso slacciando i cappi della consuetudine. Del resto, appena tornato a casa, Joao siede accanto a suo padre e dalla sua bocca sgorga una risata prorompente. Si tratta del riso profetico di chi vuole rovesciare, invertire il mondo. Solo un atto d’amore potrà salvare la famiglia: il sacrificio del padre che, con un’umanità straziante, deciderà di mantenere integra la visione chimerica della moglie.
Gebo e l’ombra è dunque quell’opera polivalente e stratificata che inscena l’identità famigliare ai tempi della crisi economica. La realtà non è vista con gli occhi convenzionali di chi ci racconta l’ordinario, ma con lo sguardo di un uomo che è ormai fuori dal tempo. Il suo set è palcoscenico del mondo che, privo di fondi opachi, riflette l’intero sistema vigente. Ancora una volta solo chi si è sempre situato in un al di là (del cinema, della storia) si rivela capace di leggere, rifondare e forse perfino redimere la realtà attraverso la finzione: nella forma De Oliveira scopre il mondo. Ed è un mondo costituito di aporie, di circoli chiusi e reiterazioni infinite. Lo spettro della morte avvolge tutto il film, che si palesa allora come apologo sul disfarsi dell’uomo e del reale. La figura di Gebo chino sul tavolo, impegnato sempre con i soliti conti, dà l’idea di un corpo che si sta consumando, di un’esistenza che sembra una putrefazione in fieri, un continuo, inesorabile dissolversi. Le luci fioche delle candele, i volti stessi delle grandi attrici di una volta (Claudia Cardinale, Jeanne Moreau), le chiacchiere vane, tutto sembra scivolare verso il nulla. Che sia Gebo e l’ombra il racconto di questa dissolvenza in atto? Che De Oliveira abbia realizzato il suo film sulla fine del mondo come un graduale ripetersi di gesti, azioni, situazioni archetipiche? Se il tempo ne Il cavallo di Torino, pietra miliare e testamentaria di Béla Tarr, era congelato all’interno della sua stessa reiterazione, in Gebo e l’ombra rimangono le ombre fioche del palcoscenico, cupo dissolvi dell’intera umanità. E rimane spazio perfino per un pizzico di umorismo in questo girotondo di fantasmi, riflessi e ombre. Come il momento in cui la vecchina interpretata dalla grande Jeanne Moreau sogna a occhi aperti davanti a quella scatola di meraviglie in cui si trova l’argent. Seduzione incontenibile, inganno della materia, menzogna idolatrica dell’umanità: alla fine siamo sempre stati schiavi di quel biblico piatto di lenticchie. Lo chiamano dramma da camera, certo, ma qui dentro sembra esserci tutto il mondo (e tutto il cinema): un baluginare di volti, sguardi e sensazioni, un inizio che riecheggia Murnau e certo cinema espressionista tedesco, mentre le inquadrature successive si costruiscono e si disfano come piani di un cinema muto che è stato invaso dalla parola, ma rimane, in qualche modo, muto. Il verbo, infatti, è difficilmente comunicativo ma è sempre rivolto al nulla: nel suo degenerare in chiacchiera, in involucro secco e arido, ha la funzione apofatica di disvelare quel niente che noi siamo. E, per paradosso, Gebo all’inizio del film dice di non voler parlare.
Come considerare Gebo e l’ombra se non come l’urlo disperato e vitalissimo di chi, a cento anni e passa, crede ancora nel cinema, in un cinema puro che debba raccontare l’uomo e i suoi conflitti interiori, ma soprattutto il disfarsi di cose, azioni e parole: film di tracce che svaniscono, tutto proteso a indagare le trasformazioni e i calchi che il tempo, unico signore della storia, ha in serbo per noi.