In bilico tra la vita e la morte. Sospesi tra una quotidianità angosciante fatta di gesti e parole sempre uguali, di rituali ripetuti fino alla nausea e un altrove lontano appena pochi passi, al di là della soglia di casa e raggiungibile con un semplice gesto come può essere quello di alzarsi ed uscire (Je Rentre a la Maison) o di spingere un pulsante. In un limbo dal quale non si può/vuole fuggire viaggiano leggeri gli sguardi di Bellocchio, Wakamatsu e De Oliveira, incerti tra campo e fuori campo come Ricardo Trepa nell’incipit di O Gebo e a Sombra, tra la potenza di uno sguardo che taglia trasversalmente lo spazio suturandosi nell’immagine successiva e la precarietà di un desiderio sognato, voluto, temuto, rimosso (Bella Addormentata), tra la libertà di un piacere vissuto fino all’ultimo respiro e l’implacabilità di una condanna destinata a ripetersi in eterno (The Millennial Rapture).
Dentro questa dialettica si muovono i film così lontani così vicini dei tre maestri come se non ci fosse nient’altro da raccontare, come se tutto il cinema potesse sintetizzarsi in questo dialogo continuo, inesausto, incessante tra l’immagine e tutto quello che gli sta attorno, tra il desiderio di un raccordo, o anche solo di un gesto (come la mano tesa di Lee Kang-Sheng in The Hole) che possa avvicinare l’altro, unire due mondi, e lo spaventoso divario che si apre nel taglio di montaggio. Il film di Bellocchio è in definitiva tutto qui, in questa tensione tra la vita e l’oblio, nel tentativo che tutti i suoi personaggi compiono di tenere vicino la persona amata, anche a costo di sacrificare la propria vita, il proprio lavoro, il proprio amore. Ancora un cinema di padri e figli, questa volta però legato al peso delle responsabilità che le generazioni più grandi hanno nei confronti dei più giovani. Tutti i personaggi del film si trovano a dover scegliere se e come stare vicini al proprio caro, come sostenerli nelle difficoltà e soprattutto quale sia la cosa migliore per loro, se il distacco (Isabelle Huppert) o la prossimità (Toni Servillo, Michele Riondino). In ogni caso è sempre una questione d’amore (e di dolore) che presuppone una rinuncia. Lo sguardo di Bellocchio leggermente meno intenso rispetto al recente passato si dimostra ancora una volta di una maturità incredibile per come riesce a tenere insieme le diverse traiettorie narrative e soprattutto per come racconta l’Italia di oggi senza rinunciare alle consuete riflessioni sull’immagine – che qui trovano una forza meno immediata ma forse ancora più incisiva. Al contrario degli altri film degli anni Duemila, il regista italiano non lavora sulla sovrimpressione preferendo tenere separate le immagini dei media - che quasi ad ogni scena occupano la diegesi – da quelle del film. In questa distanza troviamo il discorso forse più forte dell’opera: “Che cos’è l’immagine? La parola immagine non vuole dire nulla”. Dice un Servillo mai tanto misurato. Nel mondo di oggi dominato dallo sguardo il concetto di immagine non ha più alcun senso, disperso e moltiplicato com’è dentro migliaia di schermi che si fanno portatori di un discorso autoreferenziale che (ri)guarda solo se stesso. L’immagine storica di Vincere e Buongiorno, notte, qui cede il passo ad un’immagine contemporanea che resiste a farsi Storia perché priva di senso. A queste immagini di politici che si mettono in scena come fossero dei caratteristi, Bellocchio risponde con la forza dei gesti e delle parole. E alla fine è ancora la legge del desiderio ad imporsi sopra tutto e sopra tutti.
Esattamente come in The Millennial Rapture di Koji Wakamatsu (Orizzonti) dove gli uomini del clan Nakamoto si trovano condannati a ripetere all’infinito la stessa vita e a fare la stessa fine, schiacciati dal peso della passione che travolge tutto e che gli impedisce di poter rompere la loro maledizione. A raccontare la storia del clan ci pensa la levatrice Oryu che sul letto di morte comunica con le anime dei defunti ricordando la loro storia. Quel collegamento di cui parlavamo sopra, quell’ossessione per il raccordo che comprende tutta la storia del cinema, trova in questa splendida figura femminile la sua materializzazione. Attraverso il racconto la donna conserva vivo il ricordo di quei ragazzi rimanendo in bilico tra la vita e il regno dei morti – esattamente come il Matt Damon di Hereafter - ferma sulla soglia in attesa del proprio trapasso.
Chi non ha alcuna intenzione di muoversi è invece il protagonista del nuovo film di Manoel De Oliveira, Gebo, anziano signore che divide la propria casa con la moglie e la nuora e che da otto anni aspetta il ritorno del figlio misteriosamente scomparso. Quando finalmente il figlio si materializza davanti ai loro occhi le cose prendono una piega negativa. Praticamente tutto chiuso dentro lo spazio abitativo, il film riflette sulla vecchiaia attraverso la figura del protagonista, il quale ogni giorno ripensa alla vita che ha avuto, ma senza particolari rimpianti, perché conscio di come l’esistenza sia spinta dalla ripetizione, dal ritmo monotono del quotidiano. Eppure è evidente come più che l’attesa del ritorno del figlio, l’uomo aspetti l’arrivo della morte, la quale può manifestarsi da un momento all’altro, magari proprio al di là della soglia. Nel fermo immagine finale che immortala lo stupore della moglie e insieme congela l’emozione del momento troviamo tutta la straordinaria vitalità di un autore che giunto alla tenera età di 103 anni non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi, consapevole di come la morte sia soprattutto una sorpresa da accettare serenamente.