Gone Girl/Fincher - Dietro la porta chiusa

Scene da un matrimonio per ripercorrere attraverso il punto di vista il thrilling contemporaneo di David Fincher

L’amore bugiardo - Gone Girl, ultima fatica di David Fincher, arriva dopo due lavori di elevata qualità a completare un terzetto (ma sarebbe più giusto parlare dell’intera filmografia) di grande coerenza estetica, aggiungendo un altro tassello a un percorso che non è sbagliato definire un discorso autoriale, uno dei più solidi del cinema contemporaneo. Si tratta di una produzione in cui la narrazione e la sua traduzione filmica vanno di pari passo, dove il cosa non viene mai pensato senza il come, dove lo stile di narrare è perennemente in consonanza con quello di mostrare.

Da sempre l’autore di Seven lavora sull’uso del punto di vista nella diegesi narrativa e Gone Girl si pone come uno dei passaggi più evoluti, quello in cui si assiste a una vera e propria sistematizzazione del fare cinema e del lavorare sulla prospettiva da cui opera e da cui viene recepita la narrazione. A questo proposito l’inizio è paradigmatico: il protagonista viene inquadrato prima di profilo in campo medio, poi frontalmente in figura intera, subito dopo invece è lui a girarsi, offrendo un’altra faccia della sua persona pur nel medesimo sfondo. Dove è che punta l’occhio del narratore? Come si comporta il narrato? Cosa recepisce il narratario? Di questo prologo fanno parte una serie di piani fissi su alcune location, che col senno di poi, dando allo spettatore una manciata di indizi sul prosieguo del film, ricordano molto da vicino quell’unire i puntini reso indimenticabile da Steve Jobs nel discorso a Stanford.

“One pill makes you larger,

and one pill makes you small

And the ones that mother gives you

don’t do anything at all”

(White Rabbit – Jefferson Airplane)

Come sintetizzato dalla canzone che ne puntella l’andamento, The Game, film di Fincher del 1997, è uno spazio ludico tipico degli anni novanta, dove non è la diegesi a uscire dal registri drammatico, ma è lo spettatore, dall’esterno, a risolvere l’enigma, designato a trovare la chiave di volta di un racconto a incastri che vede solo al suo ultimo stadio la fine, la vittoria, la torta di compleanno.

Una matrioska di punti di vista ancora in fase embrionale, ma che nel rapporto tra vero e falso già conteneva il cuore discorsivo di Gone Girl. In quest’ultimo, infatti, nella prima parte il confronto tra lui e lei è solo illusorio, ma, proprio come Orson Welles in F for Fake ci insegna, più che una copia è un falso, qualcosa che fino a un certo punto è vero, o quanto meno creduto come vero; dopo, e solo dopo, ci viene svelato che quello di Amy è solo il punto di vista di Nick che legge il diario di Amy, reso reale dalla voce di lei. Il ricordo, le menzogne, le spinte, la violenza, a cui fino a quel momento abbiamo creduto ciecamente vengono completamente ridiscussi ed è impossibile distinguere dove finisce il reale e dove comincia la finzione. Il regime di realtà è dunque completamente abbattuto, siamo nella sfera dell’opinione dove i punti di vista conducono il loro personale testa a testa.

Immagine rimossa.

C’è più di un’affinità tra Gone Girl e The Girl with the Dragon Tatoo, opere che si specchiano mettendo sul tappeto modelli narrativi impostati su traiettorie gemelle e narratori (più o meno esplicitati) che corrono a tutta velocità per poi andare a configgere. L’esito dello scontro distanzia i due lavori: la compenetrazione dei punti di vista di Lisbeth e Mikael è l’unica chiave di volta possibile, il segreto dietro cui si nasconde la risoluzione della detection e il ponte verso il thrilling finale; in Gone Girl, invece, l’incontro è uno scontro senza compromessi, è il momento in cui si passa dalla riflessione all’azione, dalla passività all’attività, il momento in cui il faccia a faccia pubblico e privato diventa metafora dello scontro tra sessi. Emblematica da questo punto di vista è la sequenza in montaggio alternato dell’intervista, vista in differita dai due protagonisti, vera e propria traduzione filmica del punto di vista. In questo caso è proprio il medium televisivo che media tra i due sguardi, è il dispositivo che fa da ponte nel montaggio alternato delle due scene in cui Nick e Margo da una parte, e Amy e Desi dall’altra guardano (e si guardano) in televisione.

Gone Girl racconta il rapporto tra presente e passato, lo sfaldamento del matrimonio operato dal tempo e pone due interrogativi tra loro consequenziali: come leggere il presente? Che funzione ha il diario? Le memorie di Amy non sono altro che la metamorfosi letteraria della struttura di The Social Network. In quel caso, il passato, seppur capito analizzato e sviscerato maniacalmente (anche se non dalla prospettiva adeguata), non riusciva a spiegare quell’impenetrabile presente, quella faccia muta, senza espressione; non poteva decrittare il dolore racchiuso in quel punto di vista omesso, espresso solo in quei click finali, volti ad aggiornare la pagina Facebook della donna amata.

C’è un momento in Gone Girl in cui la Amy in carne e ossa prende la parola, svela la falsità di ciò che fino a quel momento è stato creduto vero e offre il controcampo mancante. Non è un semplice twist narrativo, ma un ribaltamento completo della prospettiva del racconto che risemantizza l’intera narrazione. Nella seconda parte, quando i due punti di vista sono dipanati, l’oggetto del discorso diventano i media e le reazioni dell’opinione pubblica, portando così il film sulle corde della satira sociale e dove la gamification prende il sopravvento sull’investigazione.

“You can’t see the whole complete act yet” (John Doe - Seven)

Il percorso sull’analisi del punto di vista è iniziato con Seven, dove l’inafferrabilità della realtà prendeva le forme della detection, e dove l’orrore urbano, elaborato alla perfezione in passato da film come Taxi Driver o The Driller Killer, assume le forme di una città inafferrabile, che solo nel finale mostra il suo controcampo, la sua manifestazione antropomorfa. Nulla è chiaro nel magma di orrore indifferenziato metaforizzato alla perfezione dalla città. Nulla ha un senso fino a che non arriva l’altra parte, il punto di vista della metropoli, materializzato in un Kevin Spacey allucinato, che presenta sotto i riflettori di una pianura soleggiata, in contrasto con la notturna e piovosa città, il lato oscuro della luna. John Doe è il ribaltamento fincheriano, l’istanza narrante che si manifesta, prende lo spettatore e lo sbatte in cima alla torre da dove si può vedere l’intero disegno, fino a un minuto prima completamente sconosciuto.

I personaggi di Gone Girl sono burattini umanizzati, o umani telecomandati da un deus ex machina iper-controllante, padrone di ogni cosa. Nel cinema di Fincher il colpo di coda non è la sorpresa che stupisce e sbalordisce, bensì quel gesto necessario a riaprire gli occhi, il liquido di contrasto filmico che rivela la verità cinematografica e narrativa del racconto, quel controcampo in cui Amy diventa Amazing Amy che dalla carta passa alla vita.

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“Just because you can’t prove it, doesn’t mean it’s not true” (Robert Graysmith - Zodiac)

Se Seven è stato un film assolutamente seminale per il noir metropolitano, è Zodiac quello che meglio fa coabitare le questioni che poi Gone Girl affronterà di petto, pur declinandole in altri contesti narrativi. Zodiac è il più radicale dei film di Fincher, è il labirinto dell’investigazione dove più si sa e più si perde orientamento, dove più risposte si ottengono più aumentano le domande. Un’opera sul fallimento della ricerca, sull’impossibilità di arrivare al vero, sull’impotenza del singolo punto di vista (tre punti, in verità) destinato a non comprendere mai davvero. L’altra faccia del racconto, quella di solito offerta dal regista, qui non è abbastanza, non è sufficiente a completare un mosaico che a ogni tassello trovato ne presenta due in più mancanti.

Nell’ultima parte di Gone Girl, quando la satira sui media lascia il posto al dramma coniugale, si assiste alla compresenza dei due sguardi dominanti, a un momento di sintesi (dopo tesi e antitesi), in cui l’inafferrabilità di una via di fuga è espressa tramite rapide dissolvenze in nero (presenti non a caso anche in Zodiac), quasi a celare dei pezzi mancanti e sostanzialmente introvabili. Questo è il momento del dramma coniugale, la messa in scena di una crisi senza vie d’uscita, le cui responsabilità sono ormai polverizzate e solo apparentemente incarnate dalla follia di Amy, che non a caso scende la scalinata di casa allo stesso modo della femme fatale Barbara Stanwyck in Double Indemnity. Quella stessa rampa che nel finale è percorsa dai due “coniugi” mano nella mano, inscindibili l’uno dall’altra, partners in crime.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 28/12/2014

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