Piccole Donne
Greta Gerwig mette in scena un coraggioso adattamento di un grande classico di Louise May Alcott, scavando tra le righe per lasciar emergere una profonda riflessione sull'autorialità dell'autrice americana nonché sulla propria.
Jo, Meg, Amy, Beth. Bastano questi quattro nomi a evocare tutto un mondo narrativo, costellato dai desideri e dalle personalità delle quattro sorelle March, che vivono la loro adolescenza all’ombra della Guerra di secessione americana in attesa del padre partito per il fronte. Quattro caratteri usciti dalla penna di Louise May Alcott, cosi noti nell’immaginario culturale che è facile descriverli per stereotipi: Meg è la ragazza bella e a modo, Amy la bimbetta capricciosa e petulante che vuol diventare artista, Beth la sorella amorevole, sensibile e timida, e Jo, il didietro della gonna bruciato, le dita sporche d’inchiostro per il continuo scrivere, i modi bruschi e i sogni di gloria è semplicemente Jo, affamata di vita, la ribelle che si taglia i capelli corti per non chiedere soldi alla zia ricca e antipatica, che rifiuta il matrimonio vantaggioso con l’amico di infanzia Laurie, che sogna un’esistenza libera e indipendente.
Nel 1994 usciva per la regia di Gillian Amstrong una delle migliori trasposizioni di Piccole donne (e Piccole donne crescono, il secondo volume della serie, che termina col matrimonio di Jo), corredata da un cast strepitoso (Winona Ryder, Christiane Bale, Claire Danes, Kirsten Dunst, Susan Sarandon tra gli altri) per un adattamento fedele e sensibile del romanzo della Alcott: scrupoloso nel descrivere tutti gli episodi salienti della saga, benché centrato sull’evoluzione spirituale di Jo, il film rimane ancora oggi l’adattamento perfetto per godersi sullo schermo la storia delle quattro sorelle. Come una sorta di evoluzione dal passato, la medesima produttrice della pellicola del 1994, Denise Di Novi, torna al testo per produrre la versione di Greta Gerwig, ma è subito chiaro che ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso. E d’altra parte, che senso avrebbe avuto oggi fare un altro Piccole donne, col rischio di ripetersi e di proporre per il grande schermo una copia di un film già ben diretto 25 anni fa? Pertanto diremmo subito che il film di Gerwig non racconta la storia di Piccole Donne: piuttosto ci ragiona su, decostruendolo in una riflessione sull’autorialità che parte da Jo per arrivare a Louise May Alcott, finché non è chiaro che la regista sta parlando anche di sé stessa.
Per prima cosa Gerwig struttura la narrazione entro una serie di flashback, poi decide di aumentare il margine di attenzione sui personaggi di Meg ed Amy, solitamente messi in ombra dall’imponente personalità di Jo: la prima viene seguita nella sua vita matrimoniale da adulta col buono e povero John Brooke, mentre la seconda diviene una sorta di deuteragonista del racconto, a suo modo tanto desiderosa di successo e vita quanto la ribelle sorella maggiore, con cui intrattiene un affettuoso ed eppur complesso antagonismo fraterno. Jo vuole scrivere e ci riuscirà, mentre Amy vorrebbe dipingere ma rinuncia perché priva di talento; Jo vuole andare in Europa, Amy ci andrà; Jo è il primo amore di Laurie, ma è Amy che finirà per sposarlo.
Dare maggiore spazio ai singoli personaggi significa aumentare i dettagli, ed è importante perché il racconto della Alcott nasconde dietro la patina di storia di formazione moralistica e di buoni sentimenti un non detto che tracima dai dialoghi e dagli episodi apparentemente innocenti che essa racconta. Questo non detto può essere tradotto con una sola parola: rinuncia. La crescita morale delle quattro sorelle, a parole improntata sui valori della bontà, della pazienza, e del perdono, è di fatto un’educazione alla rassegnazione che è sia invisibile sia assai concreta, ed è basata su un continuo compromesso fra ciò che si desidera e ciò che la società permette loro come donne. In Piccole donne il raggiungimento reale delle proprie aspirazioni si rivela un ripiego ben più modesto: Meg deve accettare una vita faticosa e carica di privazioni; Amy abbandona i propri sogni di artista; Jo pubblica un solo libro per poi sposarsi e metter su famiglia. Tutte vivono la gioia di accasarsi con l’uomo giusto, ma per il resto abbandonano i sogni della giovinezza. Perfino Beth, che in fondo voleva solo stare a casa con la propria famiglia, finisce per morire e diventare nel ricordo un piccolo santino amorevole.
Tutto riguarda il grande tabù del denaro, in mancanza del quale bisogna adattarsi affidandosi alle cure degli uomini. «Natale non sarà Natale senza qualche regalo» dice Jo all’inizio del romanzo, e così è la vita senza soldi propri, soldi guadagnati per se stesse e la propria famiglia: l’unica soluzione è trovare un buon partito (perché solo le donne ricche, come la bisbetica zia March, possono permettersi di morire zitelle), tutto il resto è assai disdicevole perché a voler una vita migliore, a sognare esperienze e cose che necessitano di una minima sicurezza economica si va contro un’etica che propugna la povertà e la privazione, nascoste sotto le spoglie della temperanza e dell’umiltà, come filosofie dell'essere persone perbene. Greta Gerwig propone in quest’ottica alcuni episodi dei libri facilmente travisabili come lezioni morali, per cui Meg deve imparare a essere meno capricciosa e non spendere soldi per sé, Amy deve capire che perde tempo a dipingere, e Jo, che scrive sotto pseudonimo racconti d’avventura per soldi, deve vergognarsene e retrocedere prima verso racconti più educativi e dopo, come tutte, sposarsi. Basterebbe una sola dolcissima scena a spiegare questo filo conduttore della loro giovinezza e vita adulta, ovvero quando Jo piange, nascosta in un angolo, non per i motivi “giusti” (il padre ferito al fronte), ma per qualcosa di apparentemente frivolo la cui privazione è sembrata cosi giusta che ora sembra stupido lamentarsene: i propri capelli, tagliati e venduti per aiutare la madre a raggiungere il marito in ospedale.
Non è un caso che di fronte una vita adulta così implicitamente amara venga voglia di rinchiudersi entro la famiglia e il candido mondo dell’infanzia, cosicché nel momento di massima disperazione, morta la sorella, a Jo non resta che tributarle un omaggio tornando alla memoria di un tempo che non si sapeva, malgrado la guerra, sereno e protettivo. Dietro Josephine March c’è Louise May Alcott, che aveva quattro sorelle, di cui una morta in gioventù, e che perse tutti i capelli a causa di una febbre tiroidea mentre prestava servizio come infermiera durante la guerra: ma Louise non poteva raccontare direttamente la propria storia, così l’adattò ai gusti dell’epoca, in modo però da far trasparire in ogni pagina edificante questa sottintesa verità di tutte le rinunce che ogni donna doveva alla società dell’epoca. Agli insegnamenti morali non mancò di accompagnare gli istintivi impulsi vitali dei suoi personaggi, di volta in volta colte da desideri egoistici, capricci viziati, rancori furiosi, enormi sogni frustrati e infiniti sensi di colpa per i propri pensieri, nonché continui propositi di diventar migliori per aiutare gli altri e accettare il peso dell’esistenza senza lamenti.
Greta Gerwig racconta con grazia e sentimento tutto ciò, lasciando emergere in superficie la dolorosa constatazione della rinuncia come stile di vita femminile, ma con un atto rischiosissimo mette in scena il finale di Piccole donne e allo stesso tempo lo riscrive, permettendo a Jo/Louise di entrare in scena e ammettere gli obblighi morali cui fu sottoposta nella scrittura: Jo si sposa col bravo e povero professor Bhaer, ma Louise, che non sì sposò e che non smise mai di scrivere, accetta di far sposare la propria eroina, fino ad allora riottosa al matrimonio, per poter pubblicare il proprio romanzo e diventare finalmente una scrittrice famosa. Alla fine infatti la vera storia raccontata fra le righe di Piccole donne e riportata in primo piano nel film è proprio quella di Louise, che riesce a inseguire il proprio sogno e non si piega al dovere di una vita già decisa in partenza; ed è anche quella di Greta Gerwig, che lotta per affermarsi a Hollywood come regista e artista in un mondo che le lascerebbe volentieri maggiore spazio come musa.