Rumore bianco
Baumbach tenta di trasporre in immagini il capolavoro di DeLillo ma il suo è un gesto filmico sottilmente accomodante, una gestione controllata dell’irrazionale che non cerca l’angoscia, non accarezza il limite e il terrore cieco, disinnescando l’ossessione mortifera del romanzo a favore dell'ironia da quadretto borghese.
Secondo Fredric Jameson, uno dei processi che più caratterizza il postmoderno è l’azione di colonizzazione della natura da parte della cultura; la produzione, cioè, nel tardo capitalismo, non si concentra più sul consumo di beni materiali bensì di immagini e riproduzioni del mondo, secondo percorsi di mercificazione che investono oltre i desideri la percezione stessa del reale. Il risultato è un ecosistema più pienamente umano del precedente, un nuovo ambiente nel quale la produzione culturale, attraverso una reificazione totale dei consumi, materiali e spirituali, può estendersi a impulso universale, orizzontale, onnicomprensivo. Onde e radiazioni, direbbe Don DeLillo, che in Rumore bianco (White Noise) – il romanzo della rivelazione per lo scrittore italoamericano, vincitore nel 1985 del National Book Award e tra i capolavori della letteratura postmoderna – identifica nel supermercato l’epitome di questo nuovo ecosistema artificiale, all’interno del quale l’uomo opera come cacciatore-raccoglitore di informazioni e surrogati, rappresentazioni e prodotti, nel tentativo ultimo di bandire l’assoluto. Perché c’è ancora un assoluto, un confinamento insito in natura all’agire e sentirsi umano, e quel limite è la morte. La morte è dove il mercato cessa di operare, è la dimensione liminare che sfugge al controllo dei prezzari e degli sconti in percentuale, e proprio per questo, per questa natura residuale che la rende l’ultimo evento assoluto in un ambiente umano altrimenti parcellizzato per corsie ordinate e numerate, è la radiazione di fondo che soggiace a ogni transazione umana, che sia economica, chimica o sentimentale. La morte è l’elemento terminale che il capitale non può antropomorfizzare, e ogni supermercato, centro commerciale o pagina di Amazon è una barriera costruita attorno a quest’impossibilità di controllo.
Forte del successo di Storia di un matrimonio, Noah Baumbach continua la sua collaborazione produttiva con Netflix e si cimenta con un romanzo per molti versi infilmabile, che opera per immagini certo (DeLillo è lo scrittore postmoderno più interessato a indagare il dispositivo) ma anche e soprattutto frammentazioni sintattiche, ipotassi, refrain linguistici, una storia svuotata di personaggi e popolata piuttosto da maschere, senza però che la satira – specie quella rivolta al mondo accademico – renda mai l’opera farsesca e troppo lontana dal tragico. Si tratta piuttosto di percepire il dramma attraverso il ripetersi delle epifanie di cui è cosparso il romanzo, pietre miliari di una progressiva presa di coscienza che non ha reali traguardi ma solo punti di fuga, sempre attuali e ancor più forti oggi, dopo l’esperienza della pandemia.
A questa sfida autoimposta Baumbach risponde con approcci opposti: da una parte nel film ritroviamo i frammenti ricuciti di Rumore bianco, l’infinità delle sue intuizioni linguistiche espunte e ridistribuite razionalmente lungo un tappeto sonoro che informa il ritmo di ciascuna scena, affinché il racconto trovi una struttura formale compiuta, messa in quadro e scritta con rigore, gestendo il romanzo come un serbatoio da cui attingere; dall’altra, complice la struttura divistica predisposta dalla presenza di Adam Driver (magnifico) e Greta Gerwig (meno in parte), il film porta il racconto dentro griglie narrative prima assenti, riguardanti soprattutto il ricongiungimento romantico della coppia con un’attenzione specifica ai caratteri ben lontana dagli interessi e dallo stile di DeLillo. Ne risulta un approccio normalizzante, che si nutre del romanzo come carburante ma che ha in mente un’altra versione di quelle riflessioni e critiche, un’altra collocazione, più borghese e domestica, meno preoccupata, ansiogena, scomoda.
Vengono in mente le parole con cui David Foster Wallace inquadrava il suo lavoro su Infinite Jest, il suo bisogno di definirlo un «intrattenimento fallito», perché un romanzo sulla dipendenza e l’impoverimento dell’umano attraverso la distrazione non può, ontologicamente, funzionare come distrazione. Il meccanismo, per essere coerente, deve incepparsi. Ecco, White Noise non si inceppa, non mette lo spettatore a disagio, lo spaventa a tratti – e certamente lo coinvolge nella lunga sequenza dell’ «evento tossico aereo», adattato quello sì a perfezione – ma non cerca l’angoscia, non accarezza il limite, il terrore cieco, l’ossessione mortifera dettata da analisi, esami, prelievi e tabelle, datificazione dei corpi e dei destini, il ruolo della morte nel processo identitario. La dicotomia chimica istaurata dal rapporto Dylar-Nyodene D. resta inattiva: le due facce della morte, incarnate dall’antidepressivo pensato per alleviarne il peso psichico e dall’agente chimico mortale che si deposita dal cielo per abitare i corpi, non dialogano, non generano pensiero complesso. Certo, Baumbach trova indubbiamente immagini potenti, a tratti, e può rivendicare un impegno evidente nel dialogo con il romanzo, ma sottotraccia permane la sensazione di assistere a un gesto filmico sottilmente accomodante, una gestione controllata dell’irrazionale, per definizione contradditoria, troppo simile a tratti a quella stessa merce-panacea di cui DeLillo – in un romanzo inizialmente intitolato Panasonic – voleva mostrare il potere ritualistico, vacuamente orgiastico, disperato.