Speciale "Father and son" - Intorno al cinema di Hirokazu Kore'eda
L’uomo è un incrocio di sguardi, e Kore'eda non fa altro che raccontare l’altro da sé, la fame di punti di riferimento da parte dell’identità sotto scacco.
Hirokazu Kore'eda è forse il regista più rappresentativo della propria generazione; o meglio, è il regista che incarna la migliore sintesi tra le diverse anime del cinema giapponese. Popolare e autoriale, rigoroso ma accessibile, classico e sperimentale, Kore-Eda occupa quella terra di mezzo del cinema che lo pone come ideale ambasciatore culturale della settima arte nipponica. La stratificazione appare completarsi nella seconda metà degli anni Duemila, quando il regista di Tokyo decide di affrontare generi quasi inevitabili come il jidai-geki (il dramma storico di cappa e spada: parliamo di Hama) e l’adattamento da un manga, Air Doll. La realizzazione, recentissima, di una serie televisiva conferma la curiosità di un autore che è pienamente consapevole della cultura audiovisiva contemporanea e delle increspature della mediasfera nipponica e globale. Di qui la forza del suo cinema: un classicismo poroso, innervato da vistose aperture/tagli di iconoclastia: gli inserti quasi documentari di After Life, le sospensioni narrative e gli sdoppiamenti di I Wish e molte altre eccezioni a un sistema di regole comunque chiaro e distinto, lontano da qualsiasi eclettismo d’autore.
Father and son (semplificazione italiana del titolo internazionale Like Father, Like Son) è dunque la sintesi del cinema di Kore-Eda così come di diverse estetiche e tradizioni dello sguardo. Le relazioni famigliari sono al centro del suo cinema così come di una tradizione che ha trovato i suoi picchi nel perfetto classicismo di Ozu. Già in Still Walking erano chiari i nodi di una poetica del non detto, fondata sull’esplorazione delle distanze e del silenzio tra padre e figlio, tra uomo e donna, tra madre e nuora. Se Nobody Knows) e Air Doll) contemplano l’assurdo dell’universo famigliare e l’epigenesi della relazione umana e del suo nucleo tragico di perdita e fragilità, Father and son) adotta una prospettiva, per così dire, obliqua: l’istituzione famigliare è messa in crisi dal paradosso della paternità. Cosa determina l’identità e la qualifica di genitore? E cosa determina l’essere figli, la paternità biologica o quella culturale ed educativa? Kore-Eda sceglie la strada della reticenza e rimanda la risposta al gioco speculare di due famiglie con i rispettivi microcosmi e gli eloquenti spazi. La relazione non è più questione logica quanto geometrica: i grandi ambienti dell’appartamento borghese ingigantiscono la distanza tra la mano del padre e la spalla del figlio.
Ad interessare davvero al regista sono i padri, prima dei figli: uomini cresciuti senza certezze, in difficoltà di fronte alle idee forti e rigide delle generazioni precedenti – del passato. Lo sguardo dei bambini è ovviamente il più indicato per smascherare le debolezze e le menzogne, così come quello degli oggetti e delle persone scomparse. L’uomo è un incrocio di sguardi, e Kore-Eda non fa altro che raccontare l’altro da sé, la fame di punti di riferimento da parte dell’identità (maschile?) sotto scacco. La differenza tra i suoi film e quelli del cinema giapponese classico sta tutta qui: gli uomini di Kore-Eda hanno bisogno di essere diretti. Di trovare conferma nel proprio ambiente, di registrare i propri ricordi su video (come in After Life) o di scrutare una fotografia (Father and son) per trovare il senso provvisorio di un rapporto. Sono uomini deboli e arresi di fronte alla complessità di una relazione, come l’improbabile amante della bambola-Eva di Air Doll): la gomma (o l’argilla) è più forte della carne. Surrogati, in ogni caso: feticci e immagini, come il cinema stesso, che scopre il reale ad uso e consumo di una platea altrettanto, inevitabilmente, smarrita. Ci sarà tempo per comprendere il futuro dell’identità umana e l’impatto di interfacce e mediazioni sulla nostra esistenza; per ora, il cinema giapponese si conferma il più lucido interprete di una transizione estenuante quanto rapidissima. Tra il vecchio e il nuovo incontriamo un continuum di visioni, da Kore-Eda a Miike a Mamoru Oshii (Ghost in the Shell); Ghost in the Shell 2: Innocence): non potrebbero esserci stili e immaginari più diversi. Eppure, la sensibilità e l’urgenza di interrogare il presente sono i medesimi. Dal tatami al grattacielo esiste un abisso di dolore ed evoluzione che la cultura è chiamata ad immaginare. Ozu stesso aveva avviato questa etnografia della società tradizionale giapponese al varco della mutazione del nuovo medium televisivo (Good Morning), 1959). Di padre in figlio, da maestro a discepolo: evoluzioni che sono anche inevitabili tradimenti. A distanza di decenni, lo sguardo si è fatto digitale e il punto di vista è cambiato, ma la sensibilità alla base – quella particolare sensibilità che costituisce l’ineffabile unicum del grande cinema giapponese – non è stata intaccata.