Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ero uno sposo di guerra
La terza collaborazione tra Grant e Hawks è una nuova screwball comedy, l’ennesima, irresistibile, lieve, spuntata e sgangherata, precisissima guerra d’amore tra uomo e donna.
La produzione non fu agevole: riprese interrotte in più occasioni a causa di malanni che piombarono su cast e regista. Cary Grant poté così trovare anche il tempo di sposare Betsy Drake. «È una commediola che si propone soltanto di far ridere» sentenziarono all’epoca le “Segnalazioni” del Centro cattolico cinematografico. Pochi anni dopo, era il dicembre del ’53, sui Cahiers du cinéma Éric Rohmer, in maniera molto semplice, scriveva: «Penso che non si possa amare profondamente nessun film se non si amano profondamente quelli di Howard Hawks».
1949: Ero uno sposo di guerra (titolo che non può però pienamente coincidere con la meravigliosa perfidia dell’originale I Was a Male War Bride, “Ero una sposa maschio di guerra”) è la quarta collaborazione, la penultima, tra Hawks e Grant, dopo Susanna! (1938), Avventurieri dell’aria (1939) e La signora del venerdì (1940); arriverà poi Il magnifico scherzo (1952) a chiudere la liaison professionale tra i due, forse anche a tirare le ultime, definitive somme della screwball, un’opera non particolarmente cara al regista, che sosteneva di aver ecceduto nel racconto, fino a neutralizzarne gli esiti.
C’è, alla base di Ero uno sposo di guerra, film scritto da Charles Lederer, Leonard Spigelgass e Hagar Wilde (ma zampino e occhi di Hawks non mancavano mai), un libro autobiografico del militare belga Henri Rochard dal titolo chilometrico e - secondo il regista - dal valore estetico praticamente nullo: I Was an Alien Spouse of Female Military Personnel Enroute to the United States Under Public Law 271 of the Congress. Hawks ne ricava un film che è l’ennesima, ritornante variazione (e forse anche per questo Rohmer amava tanto il suo cinema, mentre si annoiava di fronte ai film di John Ford) sul tema. La commedia post-bellica di Hawks, ambientata nella Germania occupata dagli alleati è ancora un’irresistibile, lieve, spuntata e sgangherata, precisissima guerra d’amore tra uomo e donna. Eppure, nelle mani del cineasta americano, il regista «misogino», narratore conoscitore dei generi, la commedia, la schermaglia dei sessi, è tanto puro gioco assoluto (di ruoli, quelli sul set, quelli nella vita) quanto meccanismo mai innocente, è quasi sempre un documentario estremista sotto mentite spoglie, un referto sociale implacabile di inarrivabile leggerezza. La trasparenza di Hawks è una delle più belle bugie che il cinema ci abbia mai raccontato, e sì che non esitava a confessare liberamente a Becker, Truffaut e Rivette che lo intervistavano sui Cahiers del febbraio ‘56, quanto detestasse il montaggio.
Ero uno sposo di guerra è un’avventura, perché il cineasta statunitense scorgeva poche separazioni tra il genere avventuroso e quello brillante; è una manipolazione straordinaria, perché, nella ripetizione goffa e quasi infantile di un bacio comicamente consumato dentro un mucchio di fieno, viene dissimulata la verità del corpo; è un cinema classico che legge il futuro, perché nel tempo che passa dalla busta che qui viene trasmessa da un ufficio all’altro - contenente gli innumerevoli moduli firmati dai protagonisti per potersi sposare - alla posta pneumatica che viaggia nei sotterranei parigini in Baci rubati (1968) di Truffaut, il cinema scrive e riscrive i suoi bellissimi cortocircuiti, i suoi illusionismi e le sue fantasticherie del reale.
È una commedia brillante quella di Hawks - ancora una volta, e probabilmente per lui questo canone era il vero volto dell’Occidente, questa era la sua maschera - ma di una lucentezza minore, perché dopo il secondo conflitto mondiale non poteva essere altrimenti, e le zone d’ombra, le opacità, le crisi, se pur impercettibili, mascherate, c’erano (qual è realmente la missione del capitano Rochard? E il tanto da lui ricercato produttore di lenti Herr Schidler, costretto a lavorare per il mercato nero, una volta trovato già non è più della narrazione, scompare… Ancora: la Statua della Libertà dietro l’oblò della nave che porta la coppia in America la si potrebbe perfino situare nella fantascienza politica e nella paranoia da nuovo conflitto del cinema che verrà). Il capitano francese Henri Rochard (Grant) e il tenente americano Catherine Gates (Ann Sheridan) si conoscono già, sono costretti a condividere un’altra missione, non si sopportano, poi scoprono d’amarsi, come forse hanno sempre fatto. Si sposano, ma la prima notte di nozze è rimandata… I dialoghi sono puro andamento del cinema; una musica, una grafia. Sheridan si diverte, riceve e rilancia i tempi, si aggancia all’azione e si sgancia perfettamente; Grant è un corpo comico eccezionale, avvinghiato maldestramente all’asta di un passaggio a livello che si alza; costretto a dirigere altrettanto malamente una barca che trasporta lui, il tenente Gates e il sidecar che è stato loro affidato; è un corpo costretto a volare giù da una finestra, a travestirsi da donna. L’attitudine è quasi slapstick. È lo sposo ma è anche la sposa di Ann Sheridan… solo così potrà sbarcare negli Stati Uniti: da qui in avanti il film diventa quasi un movimento ossessivo, quasi uno straniato auto-sabotaggio clandestino, uno svuotamento al millimetro del genere e delle sue forme, delle sue reiterazioni. E non è il personaggio di Grant a sdoppiarsi, è il cinema dell’invisibilità che lo fa.