Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Gli uomini preferiscono le bionde
Un film apparentemente minore, che traghetta il cinema americano classico verso l’Europa in un’esplosione di technicolor e cinemascope.
Il fatto che Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen prefer blondes) sia considerato un film minore nella filmografia di Howard Hawks dovrebbe essere sufficiente per due considerazioni. La prima, ovviamente, è il peso di una carriera tanto prolifica quanto eterogenea nei generi affrontati, e sconcertante nei risultati raggiunti: da Susanna!, capolavoro screwball, a Scarface, Il grande sonno e Il fiume rosso, rispettivamente vette del gangster movie, del noir e del western, questo ingegnere finito un po’ per caso nel mondo del cinema cavalca l’industria hollywoodiana nei suoi anni d’Oro, per poi congedarsi nel momento dell’esplosione della nuova Hollywood. L’altra, è la modestia con cui lo stesso regista, riconosciuto in quanto autore soltanto dalla giovane critica francese, guardava al suo cinema: per Hawks, Gentlemen prefers blondes è giusto un divertissement, «il genere di film che ti fa dormire bene la notte, non ti dà nessuna preoccupazione; cinque o sei settimane sono sufficienti per girare i numeri musicali, i balletti e tutto il resto», come assicura proprio ai Cahiers du cinéma nella celebre intervista del ‘56.
Ma se, nel segno della trasparenza, ossia quello che per la politique des auteurs dei giovani turchi costituisce il tratto distintivo del cinema di Hawks, è innegabile che il film scivoli via leggero ed effervescente come una coppa di champagne, l’operazione è assai più complessa e stratificata di quanto la sua abbacinante cornice (e la percezione stessa dell’autore!) non dia a vedere.
Tratto dal romanzo omonimo di Anita Loos, pubblicato nel 1925 e già trasposto con successo sui palcoscenici di Broadway (che consegnano a Hawks i brani musicali attorno ai quali costruire la messa in scena), Gli uomini preferiscono le bionde vive del brillante contrappunto tra il suo stesso universo narrativo, figlio dei Roaring Twenties, e il sistema produttivo degli anni Cinquanta, ancora immerso nel Codice Hays e attratto dalle innovazioni tecnologiche bigger than life, per reggere il passo con la sempre più pressante minaccia del piccolo schermo.
L’immaginario di Anita Loos, che modella la sua Lorelei Lee da Little Rock, Indiana, sulle ballerine delle Ziegfeld Folies, capaci di rincretinire schiere di uomini d’affari e intellettuali, viene riletto da Hawks attraverso le decadi della storia del cinema americano: al prototipo della flapper e alla golddigger del romanzo si sovrappongono le svitate e trascinanti eroine della screwball comedy, le metatestuali performer del musical – finestra sul mondo dello spettacolo – e le conturbanti protagoniste dei western e dei noir anni ‘40, che già scalfivano con le loro inquietudini le certezze del cinema classico propriamente detto. I corpi di Marilyn Monroe e Jane Russell sono, in tal senso, niente affatto casuali e, lungi dall’epidermica contrapposizione suggerita dal titolo tra brune e bionde ossigenate, diventano armi al servizio di Hawks, attraverso cui ripercorrere l’evoluzione della donna nella società americana e i modelli e riflessi offerti dal cinema hollywoodiano.
Ne consegue un sottile ribaltamento di sguardi e prospettive: al supposto “male gaze” che rende oggetto sessuale le protagoniste, interpreti di numeri musicali che sono di fatto dei sensuali andirivieni in abiti succinti, si sostituisce, in un fondamentale controcampo, la visione delle due vedette sul pubblico in sala. «You know, I think you're the only girl in the world who can stand on a stage with a spotlight in her eye and still see a diamond inside a man's pocket» (Sai, credo tu sia l’unica ragazza al mondo che stando sul palcoscenico con i riflettori negli occhi riesce a vedere un diamante nella tasca di un uomo!). Lo sguardo a raggi X di Lorelei Lee, innestato su quello sensuale, da sotto in su, tipico di Marilyn, è lo scarto fondamentale di Gentlemen prefers blondes: è un’occhiata fatale, che riduce gli uomini a cartoons - come accade al volto di Piggy (Charles Coburn) incorniciato da un diamante animato non appena dichiara di possederne miniere - o li trasfigura in bambini, nel caso di Mr. Henry Spofford III (and valet).
E nel frattempo cosa accade al corpo femminile? Hawks ne assicura l’inafferrabilità, ripesca travestimenti ed equivoci screwball che lo deformano - Marilyn incastrata nell’oblò - o lo sostituiscono, con Jane Russell che nella sequenza nel tribunale parigino si produce in un’imitazione della bionda svampita per una platea di maschi miopi, incapaci di vedere oltre il trucco e parrucco. Ma se anche la bruna interprete di Il mio corpo ti scalderà appare più mascolina e volitiva, è la bamboleggiante Marilyn ad attrarre su di sé i segni della modernità: diversamente da quanto le accade nel coevo e più rassicurante Come sposare un milionario, dove porterà un riccone all’altare ma per amore, la sua Lorelei Lee rimane l’enigma del film, capace di alternare infantili errori grammaticali a lucidi ragionamenti sull’equo valore del denaro e della bellezza nei rapporti uomo-donna («Don't you know that a man being rich is like a girl being pretty? You might not marry a girl just because she's pretty, but, my goodness, Doesn't it help?»). Quello di Lorelei-Marilyn rimane un mistero indecifrabile e la sua icona, che qui nasce definitivamente nella performance di Diamonds are a girl’ best friend, manifesto per le future material girls, si fa tanto più sfuggente quanto più è esposta alle luci della ribalta e all’esplosione di Technicolor e Cinemascope.
Su questa nave da crociera Hawks traghetta il cinema americano classico verso l’Europa, come accadrà di fatto alla sua filmografia, riletta come moderna e riconosciuta in tutta la sua grandezza proprio nel Vecchio Continente.