Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Hatari!

di Howard Hakws

Nella geopolitica fantastica dell'Africa hollywoodiana, i vecchi eroi western di Hawks e Wayne diventano evangelisti del cinema d'azione moderno.

Hatari recensione film Hawks.

Nella scomposta genealogia del Cinema d'Azione e della sua evoluzione in genere autonomo, dotato di teoria e caratteristiche proprie ormai fissate (“cinema in cui la vertigine del movimento si sostituisce al dialogo nel veicolare la narrazione” può essere una definizione calzante), Hatari! di Howad Hawks avrebbe sicuramente un ampio capitolo dedicato.
Tra gli ultimi lavori di un autore ormai entrato in fase di libertà produttiva assoluta, nel film del 1962 le famose dialettiche hawksiane (noi-loro, dentro-fuori, civiltà-barbarie) si aprono a quell' “esterno totale” che è il campo di messa in scena proprio di questo cinema; quella di Hatari!, concepito come film di caccia grossa e poi scritto a ritroso sulla base delle riprese in esterna raccolte in Tanzania dalla troupe (caricata in massa sulle jeep senza controfigure o stuntmen), non è in fondo un'idea di cinema troppo diversa, per dire, dal Top Gun di Tony Scott, storicamente assemblato a partire dal footage delle evoluzioni aeree militari. Ed è interessante come il proto-action forse più imponente della sua stagione nasca dallo sguardo del più invisibile dei grandi di Hollywood, abituato a esprimere la propria autorialità più nella reiterazione dei temi che nello stile.

L'azione è forse il genere per definizione a mettere i personaggi e la recitazione in secondo piano, rispetto a un'idea prevaricatrice di regia e montaggio. E il grande sacrificato di Hatari! è proprio quella dimensione personale, spesso comica, altre volte aggressiva e rancorosa, propria degli eroi noir e western dell'autore. Se lo stesso western classico fu un'epopea di grandi uomini, ora il gruppo di eroi hawksiano rimpicciolisce, schiacciato di fronte a un Altro rappresentato dalla brutalità della caccia e dall'impetuosità animalesca.
È l'alterità incarnata (non certo l'africano, ma gli animali stessi) a strappare il ruolo da protagonista ad attori-umani mai così subordinati; oltre il semplice circo, Hatari! cede quasi interamente la linea narrativa al bestiale - non addestrato, ma liberato davanti alle cineprese – mettendo in crisi persino le distinzioni tra ricostruzione e documentarismo, virtualmente invalicabili nella Hollywood dello studio system (fino a che punto si può parlare di recitazione in un film incentrato sui comportamenti animali?). Addirittura, quando il finale impone di tirare le fila del discorso “umano” di fondo (l'adozione della fotografa di città da parte della squadra di cacciatori), è a un branco di elefanti che viene affidato il motore narrativo, con John Wayne in persona letteralmente costretto a “inseguire”, in un ribaltato rapporto di centralità.

La scelta di trasporre una nuova visione della vecchia epica sulle piane tanzaniane apre più di un discorso sulle implicazioni produttive di Hatari!.
Nel momento più critico della già violenta fase di decolonizzazione, l'Africa, in pericoloso bilico tra i due Blocchi, rappresentava a metà secolo una sorta di terra vergine, su cui l'Occidente aveva tutto l'interesse a ribadire una sovranità che ne trascendesse le spinte indipendentiste. Per degli imprenditori americani, il politicamente neonato continente non poteva non apparire come un ideale nuovo West, erede metaforico di quello ormai urbanizzato statunitense; e nel sogno turistico del safari e del grand tour africano, i vecchi reazionari del cinema USA (il film è tanto di Hawks quanto della star protagonista) sentivano forse palesarsi la nuova frontiera di quel processo continuo di conquista e sottomissione del selvaggio, quale fu proprio del western fordiano.

hatari

Il mondo fotografato da Hatari! sembra dunque appartenere (e di fatti appartiene) a un altra dimensione del reale rispetto, per dire, alla testimonianza che ne davano i contemporanei film etnografici di Jean Rouch, che in quegli stessi anni rivelavano all'Europa un nuovo universo in piena fase di autoaffermazione. Per l'America, l'Africa subsahariana è invece un grande parco giochi, mondo fantasy e terreno mitico in cui rimettere in scena, ritualmente, l'antica epica dei padri. Il ruolo degli indigeni non può essere diverso da quello degli indiani del Nord America: pura tappezzeria esotica, marginale anche rispetto al già esiguo spazio riservato ai co-protagonisti europei (spagnoli, francesi, pure italiani, con Elsa Martinelli impegnata nell'improbabile love story con nonno Wayne) – tutti comprimari di relativa importanza ai fini dell'affermazione di Destino manifesto anglo-germanico.

In una dimensione geopolitica così controversa, un sorprendente Hawks “bambino” riporta però ogni discorso su un piano di ironia ulteriore, che dissolve la violenza implicita dei suoi primi lavori con Wayne (da Il fiume rosso al precedente Rio Bravo). Il rapporto con la nuova frontiera elaborato nella sua storia di caccia non sembra più di sfida, quanto di pacificazione, come anche gli immancabili scontri culturali tra i compagni d'avventura, eterno retaggio dell'origine screwball comedy dell'autore. La smitizzazione farsesca dell'eroe fordiano arriva addirittura all'evirazione metaforica di un John Wayne all'apice della fragilità, impacciato, devirilizzato e virginale di fronte alla sfrontatezza sessuale delle co-protagoniste. Il proverbiale, distruttivo scontrarsi degli ego è qui ricondotto all'ambito del gioco tra bambini: come se la fantasia utopico-coloniale avesse ormai mondato le conflittualità dell'Occidente nel sole africano, e l'estasi dell'Azione totale travolto e asciugato i veleni della vita.

È qui che il protagonista western sembra finalmente ricongiungersi alla sua reale natura di giocattolo umano, soldatino di plastica animato, senza dimensioni, infine sacrificabile in quanto personaggio a favore di un puro corpo filmico: arrivati al forsennato finale si ha l'idea di un film che potrebbe proseguire ancora, alimentando se stesso, in un esercizio di movimento e frenesia liberato da ogni obbligo narrativo, senza neanche più bisogno dei suoi stessi eroi.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 19/05/2021
USA 1962
Regia: Howard Hakws
Durata: 157 minuti

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