Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande cielo
Nel 1952, a quattro anni di distanza da "Il fiume rosso", Howard Hawks torna al western con un film a suo modo unico, molto diverso dal precedente ma ugualmente capace di lasciare il segno nella storia del genere.
Kentucky, 1832. I cacciatori Jim Deakins (Kirk Douglas) e Boone Caudill (Dewey Martin) si incontrano per caso, divenendo ben presto inseparabili. Arrivati insieme a St. Louis, decidono di unirsi a una spedizione francese diretta a nord. Lo scopo: risalire il fiume Missouri per più di tremila chilometri per commerciare pellicce direttamente con la tribù dei Piedi Neri. Ma in quel territorio enorme e inesplorato più di un pericolo metterà alla prova i due uomini e la loro stessa amicizia.
È un Paese vasto quasi quanto il cielo, quello raccontato nel secondo western (se si esclude la regia non accreditata a fianco di Howard Huges ne Il mio corpo ti scalderà) di Howard Hawks. Una vastità, come dirà il Jim di Douglas, «che Dio ha fatto e poi si è dimenticato di popolare», grande quanto un cinema capace di riempirla con tutto lo spettro dei sentimenti umani. È un western anomalo, d'altronde, Il grande cielo. Un viaggio – tratto dall'omonimo romanzo di A. B. Guthrie Jr. – che parte da una civiltà che comincia ad andare stretta («Io non potrei mai vivere in quel formicaio», dice Boone alla vista di St. Louis) e si immerge nella natura incontaminata, per non fare più ritorno.
A quattro anni di distanza da Il fiume rosso, Hawks torna al western con un film profondamente differente da ciò che lo ha preceduto e da ciò che verrà dopo, ma altrettanto capace di entrare a pieno titolo nella storia del genere. Un film inaspettato, che fa dell'alternarsi di toni e situazioni uno dei suoi aspetti fondamentali, imprevedibile come il corso di quel fiume che Jim e Boone decideranno di risalire sfidando la corrente e arrivando dove nessun bianco era mai arrivato prima.
Certo, i temi classici cari al western hawksiano ci sono già tutti, dal mito della frontiera all'amicizia virile, passando per la donna contesa (la Occhio d'anitra della modella nativa Elizabeth Threatt, nel suo primo e unico ruolo cinematografico); così come è ben presente il consueto stile “invisibile” e rettilineo del regista, senza flashback o ellissi a minare la continuità degli eventi. Ma sono i modi in cui questi aspetti vengono messi in scena a fare la differenza, gettati come sono in una wilderness dove lo scontro tra simili perde di tragicità (è un lontano ricordo il rapporto conflittuale dai toni edipici de Il fiume rosso) a favore di un confronto elementare con una Natura (anche umana) ignota e selvaggia.
Alternando senza soluzione di continuità scene avventurose a momenti umoristici o riflessivi, Il grande cielo ribadisce così il suo status di unicum nella produzione western di Hawks. Un'unicità non a caso sottolineata anche dall'assenza di John Wayne, qui sostituito da un Kirk Douglas reinventatosi inedito eroe hawksiano, parte sconfitta ma nobile del triangolo amoroso che caratterizzerà la sottotrama del film.
Un western lirico, dunque, in cui tutto pare ancora di là da venire, capace, tra scene epiche e sprazzi panteistici, di spogliare i suoi personaggi di quelle sovrastrutture che solo in seguito ne condizioneranno scelte e stili di vita. Perché nel mondo ancora vergine de Il grande cielo non c'è spazio per rimpianti o malinconie, per smanie di possesso o per qualche elaborato senso di giustizia o del dovere. Al suo centro c'è solo l'uomo, con il suo coraggio, i suoi (anche bassissimi) istinti e il suo rapporto con una Natura che non sarà mai più così simile a quel grande cielo che la sovrasta.