Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: Il grande sonno
Innovatore ma al contempo classico, profondamente autoriale ma sempre comunque figlio di una regia invisibile, sotterranea; un capolavoro, in cui Hawks si diverte a destrutturare, reinventare, riplasmare il noir, affiancato dai divi Bogart e Bacall.
Talvolta è dolce perdersi nel grande sonno, sebbene questo “grande sonno” si riferisca alla morte e alle oscurità che vi si celano dietro. Tratto dall’omonima opera prima di Raymond Chandler, pubblicata nel 1939, Il grande sonno è uno dei grandi, innovativi lavori, eppure intimamente classici, di Howard Hawks. Nel raccontare la torbida vicenda in cui rimane invischiato il detective privato Philip Marlowe, Hawks compie un piccolo miracolo. Forse più di uno.
La filosofia di Hawks, si sa, era di sposare una politica stilistica che rendesse il suo ruolo “invisibile”, in modo che lo spettatore fosse completamente immerso nella storia. Nessuna distrazione derivata da vezzi tecnici, artistici, da un occhio invadente che ammicca allo stupore del fruitore, nessun virtuosismo sterile, niente che facesse presupporre la presenza della macchina cinema, del suo grande apparato al di qua della macchina da presa.
Eppure, Il grande sonno rivela la grandezza del suo regista. Lo fa attraverso un’attenzione al quadro dell’immagine, che raramente si costruisce per mezzo di primi piani o di panoramiche, quasi sempre con campi medi, i totali, con i corpi degli attori a mezzo busto, con piani americani o a corpo intero a dar forma a una visione statica che lavora assiduamente a un complesso dialogo con la parola. Un’immagine, quella de Il grande sonno, che azzarda talvolta costruzioni più ardite, come nella sequenza del pestaggio di Marlowe, con quella nebbia e quell’oscurità in un vicolo i cui muri tagliano verticalmente l’immagine stessa. Ed è il mondo de Il grande sonno a essere il primo, grande indizio sul potere dell’immagine. Ciò che appare, nel film, è solo il velo oltre al quale si nascondono altri mondi, altre menzogne, altri pericoli. E non è un caso che l’ambientazione del film sia Los Angeles, la cui messa in scena è frutto di ricostruzioni artificiose, set maestosi che danno forma alla realtà per come l’aveva concepita Hawks.
Eccolo, il primo inganno. Marlowe si muove, indomito, con la sua corazza etica e con il suo scudo fatto di morale, in un mondo marcio, dove nulla è vero. Inevitabile che il pensiero ricada sul cinema stesso, sui meccanismi finzionali, sull’inganno dello spettatore. Un cortocircuito metanarrativo, probabilmente inconsapevole, ma profondamente affascinante nel suo raccontare una città, un momento storico che sono al tempo stesso un cinema, una tipologia di racconto.
Questo racconto è il noir, che qui Hawks si diverte a destrutturare, reinventare, riplasmare. Perché se è vero che Il grande sonno è il paradigma del genere noir, è altrettanto vero che sia un film che ripensa quegli stessi stilemi, oscillando fra humor e violenza, romanticismo e disincanto. È la scrittura, in fondo, a rendere ancor più speciale quella che è una delle opere più intriganti e affascinanti di Hawks, merito anche dell’apporto essenziale di William Faulkner.
E, infine, c’è il Marlowe interpretato da Humphrey Bogart. Personaggio disilluso, stanco di un mondo in decomposizione eppure paladino di una giustizia a tutti i costi, anche a rischio della sua vita. Cercatore dell’amore ma senza compromessi: il Marlowe di Bogart è memorabile proprio per il suo collocarsi in maniera così celatamente straziante nei confronti di un mondo che vorrebbe rendere migliore ma di cui non può che constatare la marcescenza.