I Fantasmi di San Berillo
Il transito storico del quartiere San Berillo, un racconto di nostalgici fantasmi e maschie musa.
“POLO: – Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perchè li pensiamo.
KUBLAI: – A dire il vero, io non li penso mai.
POLO: – Allora non esistono.”
(Le città invisibili – Italo Calvino).
Quartieri di città che si estendono tanto quanto il respiro di un foglio, passante tra il pollice e l’indice di un lettore distratto, per poi esser voltato e cambiato; attraversato da una nuova pagina. Sciorinando tra panni stesi nella visione di città mitiche o quartieri fantasma. Ritrovandolo poi nei bassifondi della memoria personale e collettiva. Dentro un pozzo di piscio e cemento. Un dimenticatoio grande quanto uno scantinato, fatto di case basse e magri vicoli nascosti, dove i muri puzzano dell’urina delle notti passate. Dove vecchie e non più giovani puttane convivono con transessuali ruvidi, scaldati solo da una luce fioca, dalla barba non rasata, che restano in attesa che qualcuno varchi la loro porta, quel loro vecchio cliente magari, a raccontargli di un segreto indecente e mai rivelato a nessun altro se non a lui. Luoghi di transito di nascoste passioni, di amori notturni, di seni grandi tenuti sulle balaustre delle case, in attesa di un nuovo amore da vendere, per poco. Quartieri di Genova raccontati e cantati, quartieri di Catania vissuti ed abusati, quartieri d’Italia nascosti e sanati.
Nel 1958 la legge Merlin chiude le case chiuse, o spostando le tante concubine della notte sulle strade provinciali o continuando a nasconderle, e voltando morbidamente lo sguardo altrove, in aree ben circoscritte. Nel quartiere San Berillo di Catania il vociare notturno si indebolisce, le case chiudono i battenti lasciando i terrazzi come unici testimoni del loro passaggio. Il quartiere a luci rosse più noto del Mediterraneo spegne l’insegna battente ma non il desiderio degli uomini. Continuando a lampeggiare ad intermittenza come un faro notturno, dal luogo delle passioni sopite o dal porto caldo per malinconiche matrone. I fantasmi di San Berillo, documentario di Edoardo Morabito, vincitore dell’ultimo Tff, ci ricorda il transito storico di un quartiere di una città di mare, percorso questo che s’intreccia con le tracce storiche dell’intera penisola. Il regista riesce a rievocare vecchi e nudi fantasmi di giovani donne insieme a ritratti spigolosi di maschi truccati, in stanze o anfratti luridi e bui, testimoni della sessualità degli altri. Ricordi questi o visioni che il regista percepisce e cattura nell’aria rancida del quartiere, tra quei fantasmi che appartengono un po’ a tutti, fantasmi che si cerca di allontanare, spostandoli dentro altri luoghi che tutti almeno in sogno abbiamo riconosciuto.
Periferie interne alla città, luoghi dimenticati in sobborghi sporchi e puzzolenti. Muri vissuti da troppe vite diverse, muri di mare. L’occhio del regista cattura tutto, dall’identità del quartiere nata su teatrini e pupi siciliani fino al suo lampeggiare nei sogni di molti uomini, arrivando ai giorni nostri, ai volti che lo vivono e che lo ricordano. Con il ritmo lento di una passaggiata tra i vicoli che è testimonianza per le future generazioni che forse non lo vedranno mai, di passaggio, il rinomato quartiere San Berillo, perchè presto sarà bonificato; e per gli abitanti del quartiere il primo segno è un albergo che sta nascendo ai limiti della zona. Un cantiere aperto con un nuovo palazzo in costruzione, alto, da guardare con la testa rivolta verso il cielo, dimenticandoci per un istante di ciò che ci circonda, dell’estensione in larghezza della nostra anima. I ricordi e la puzza schiacciati da un nuovo progetto edilizio. Quartiere questo, già dimezzato nella sua estensione nel 1957, nel noto sventramento di San Berillo, riducendolo della metà. Tutto è raccordato da letture da Le città invisibili di Calvino, che vengono sussurate dalla voce della Finocchiaro, quasi con il timore di essere ascoltate, lasciando lo spettro del loro passaggio sui muri della città vecchia; mischiandosi alle testimonianze, ai ricordi di un vecchio borgo diverso da quello attuale, in un fluido di voci, volti, seni, storie, amori e segreti difficili da cancellare.
Ed è proprio a questo che il regista tende, documentando per non dimenticare, per farli di nuovo esistere anche in futuro, per fare in modo che qualcuno li ricordi e che li pensi così da non smettere mai di essere pensati. Futuri e vecchi fantasmi, che in vita si ricordano. Impossibile non prescindere nelle note finali dalla cantata della vecchia città di De André.