La danza della realtà
Jodorowsky ripercorre la propria infanzia in un'epopea fantastica, facendo appello al potere taumaturgico del cinema
Nel confronto con la memoria l’artista possiede uno strumento in più: può riscrivere la storia, perfezionarla, manipolarla per trarre sollievo dai propri ricordi. Un’operazione a metà fra la rimozione psicologica e la confessione per metafore, che permette al cinema di penetrare attivamente nelle esperienze umane e farne inedita materia narrativa. La metonimia in questo contesto è la cifra stilistica sostanziale de La danza della realtà tratto dall’omonimo libro, la cui estetica parodistica fa da tramite al processo di liberazione mentale di Alejandro Jodorowsky dai propri spettri infantili.
Sono certo presenti gli elementi dolorosi della propria giovinezza in Cile, in primis quel padre severo, rabbioso, ateo che costringeva il figlio a cruenti prove di mascolinità – farsi operare ai denti senza anestesia, o ricevere schiaffi senza piangere - e la madre mite, religiosa e sottomessa al marito. Ma il regista vuole descrivere le debolezze dei genitori solo per permetter loro, in una lettura romanzata della storia, di superarle, riconciliarsi e perfino realizzare le aspirazioni frustrate: la donna, appassionata di lirica, si esprime nel film solo cantando (!), e l’uomo, ossessionato dal proposito di attentare alla vita di Ibanez, all’epoca dittatore del Cile, concretizza sullo schermo il tentativo di ucciderlo (ma che poi vi riesca è un’ altro discorso). Jodorowsky adulto dialoga e consola il proprio sé bambino, confessando gli antichi sentimenti di dolore e paura del ragazzino che fu, quasi costretto a scegliere fra la dolcezza materna e la durezza paterna.
L’impostazione teatrale declina il racconto in forma di parabola, testimoniato dalla lunga fila di personaggi dipinti a colori forti come clown, mendicanti mutilati (vittime degli incidenti in miniera) madri canterine e santoni illuminati. Persone realmente conosciute nell’infanzia dall’autore, ma trasposte in figure iconiche e fiabesca. Il richiamo felliniano non è solo suggerito, ma confessato dallo stesso Jodorowsky, come uso psicoanalitico del mezzo cinematografico atto a a cauterizzare le ferite e i fantasmi del passato, lasciandoli riemergere in veste di immagini sul quale il regista può intervenire liberamente, anche inserendo nel cast la propria famiglia
E ne La danza della realtà ci sono peraltro davvero bellissime sequenze visive che esulano dal dato reale per impregnarsi dell’emozione del bambino Alejandro tornato ai sapori del proprio paese: scene oniriche, immaginarie, che esprimono tutto il senso del magico, del sovrannaturale che Jodorowsky avvertiva da piccolo, pur diviso fra fede e materialismo.
Tradizionalmente la fiaba ha il ruolo di rappresentare le fantasie inconsce della psiche, attuando uno spostamento dal pensiero originario a una sua traduzione figurativa secondo percorsi non dissimili dal sogno. Tornare indietro al tempo in cui la mente non aveva ancora imparato a rimuovere eventi e desideri significa giungere a quella dimensione infantile in cui realtà e immaginazioni hanno confini ancora vaghi, e La danza della realtà si assume il compito di riportare non meri dati biografici quanto le sensazioni del bambino che fu il regista, e il desiderio da adulto di accettarle e superarle, filtrandole con l’esperienza di un’intera vita artistica; dimostrando che il cinema può anche guarire l’anima.