I milionari
Il film di Alessandro Piva si nutre di tutti i lavori precedentemente realizzati sull'argomento del crimine organizzato, sintetizzandoli in una forma troppo televisiva e poco cinematografica.
Dopo i padroni della Magliana (Romanzo Criminale, film e serie), i padroni del Brenta (Faccia d’angelo), i padroni di Milano (Vallanzasca – Gli angeli del male), i padroni della camorra e di Scampia(Gomorra, film e serie) adesso arrivano anche i padroni di Secondigliano: I milionari di Alessandro Piva. La storia è quasi sempre la stessa, le dinamiche criminali si rincorrono da film a film, inseguendosi su un terreno già visto. Siamo negli anni ’80, gli anni in cui Maradona faceva sognare il popolo napoletano. Il film di Piva racconta l’ascesa e la caduta di un clan criminale che in quegli anni ha sfruttato la devastazione del terremoto per accaparrarsi soldi e potere attraverso gare per appalti truccati. Seguendo lo sviluppo anagrafico e criminale di quattro fratelli, dall’età della pubertà, ai primi omicidi su commissione, fino all’ascesa che li consacrerà come uno dei clan più influenti di Napoli, il film si sofferma sulla figura di uno dei quattro, Marcello Cavani detto AlenDelòn, un povero disgraziato che si comporta come un borghese, classe alla quale appartiene solo per la quantità di denaro che elargisce. Un titolo ed uno stile di vita comprato con i soldi derivanti dalle piazze di spaccio, una classe sociale acquistata attraverso il sangue versato. Diciamo che Piva lo preferivamo quando, molto più ingenuamente, girava Lacapagira. I milionari è un film che arriva tardi, un film che nonostante sia legato al lavoro d’inchiesta fatto dal PM Luigi Cannavale e riportato nel libro omonimo di Giacomo Gensini, si nutre di tutti i lavori precedentemente passati sull’argomento. Camminando sulle stesse orme dei suoi predecessori il film non gode di nessuna originalità, personaggi già rappresentati, dinamiche già indagate, scene già mostrate (l’abbraccio tra O’ Piragna e la mamma dentro la doccia mentre le casa brucia o come la discendenza ereditaria del boss che lascia il posto al proprio giovane figlio). In più il ruolo di protagonista viene dato a Francesco Scianna, un attore buono per ruoli comprimari ma troppo esile per potere sostenere un intero film sulle sue spalle. Gli unici attori che funzionano sono quelli che veramente vengono dalla strada, attori che sul volto mantengono ancora i segni della galera come Salvatore Striano che interpreta il O’ Piragna. Questa è stata una delle forze di Gomorra (film) che indagava in maniera palpabilmente realista il mondo camorristico. Ha funzionato anche quando il ruolo di protagonista veniva affidato ad attori in grado di sorreggere il peso della riuscita (Kim Rossi Stuart – almeno nell’interpretazione - ed Elio Germano) ma in questo caso purtroppo non funziona come dovrebbe. La sensazione di generale piattezza deriva anche dal fatto che non ci sono scene forti (esclusa la picconata in pieno petto molto gore) che sorreggono una struttura già digerita dal pubblico, dando qualità e spessore ad un film che ha una resa troppo televisiva. Arrivando dopo gli ultimi, il film di Piva dichiara la conclusione di un ciclo legato alla criminalità organizzata. Speriamo se ne accorgano anche i produttori. Un film che potrebbe essere un buon prodotto televisivo ma che di cinematografico ha ben poco, un lavoro scolastico che ha il peso di un temino ben confezionato ma niente di più. Un lavoro che si perde nell’impalpabilità attoriale e nella prevedibilità di una storia che riconosciamo fin dall’inizio, conoscendone già a priori le dinamiche che poi ci mostrerà, occlusa da epidermiche introspezioni psicologiche su personaggi ben noti che si muovono sulla scena in maniera stanca e scomposta, come se fossero loro i primi a non credere nella riuscita finale del prodotto, tanto quanto il regista che li dirige. Rimanendo e chiudendo nel contesto delinquenziale si diceva, in Romanzo Criminale ma anche nella realtà, che Roma non vuole padroni ecco, anche il cinema italiano, oramai che i padroni del crimine ce li ha mostrati e raccontati, non esige più storie criminali. Quindi le cose sono tre, o iniziamo a produrre nuove figure criminali già nella realtà, oppure cominciamo a riderci sopra, raccontando storie criminali attraverso l’uso di una sana ironia parodistica (Take Five) oppure, meglio ancora, cambiamo argomento.