Il buono, il matto, il cattivo
Tra il western di Leone e il pulp di Tarantino, Kim Jee-woon mette il suo talento registico a servizio di un mash-up anarchico e ultrapop
Come è noto a chi ne è frequentatore, il Far East Film Festival non è un luogo in cui andare a vedere specificatamente il meglio del cinema orientale d’autore. Il Far East, come rivendicato in ogni occasione dalla sua direzione, è una vetrina del cinema nazional-popolare, uno scorcio puro e diretto sulla realtà commerciale e industriale della settima arte asiatica, e per quanto in questo processo capiti spesso di trovarsi di fronte a titoli particolarmente raffinati, l’idea di fondo è quella di andare lì a scoprire cosa sia veramente il cinema per il pubblico cinese, thailandese, indonesiano e così via. Per questo il Far East è la sede per eccellenza nella quale comprendere le direzioni commerciali degli ultimi anni, capire e scoprire i movimenti pratici nei quali si concretizza quell’enorme macchina produttiva qual è il cinema orientale oggi (nel 2010 la Cina da sola ha realizzato la bellezza di 526 film). Ma cosa c’entra tutto questo con Il buono, il matto, il cattivo, omaggio del regista sud-coreano Kim Jee-woon allo spaghetti-western di leonina ascendenza? Tutto.
C’entra, e molto anche, perché la crescita industriale del cinema si basa per forza di cose sul genere, e quindi in tempo di crisi postmoderna sulla sua scissione e rifusione combinante. E’ il genere ad alimentare un’industria in buona salute, e in questo bisogno si insinua negli ultimi anni proprio la scoperta del western, nuova mitologia che il cinema orientale si sta apprestando ad assorbire e riadattare ai propri stilemi, con una manovra simile a quella avvenuta in passato per il noir. Come abbiamo detto proprio in sede di Far East, a dimostrazione di ciò troviamo che il secondo successo commerciale cinese del 2010 è stato Let the Bullets Fly, western grottesco a metà tra Leone e Tarantino, segno plateale di una nuova direzione che proprio nella riscoperta degli straordinari luoghi dell’entroterra cinese o della Manciuria (come in questo caso) trova la sua azione fondante. Ecco perché Il buono, il matto, il cattivo non deve esser visto solo come un anarchico gioco citazionista bensì valutato per la sua carica esemplificativa.
Manciuria 1930 circa: il killer Manciuria Kid (Lee Byung-hun) viene assoldato per recuperare una mappa venduta ad un banchiere giapponese; il cacciatore di taglie Do-won (Jung Woo-sung) è alle sue costole, interessato alla ricompensa che gli spetterebbe per la cattura di Chang-yi; il ladro mezzo folle Tae-gu (Song Kang-ho) si ritroverà con la suddetta mappa tra le mani, una traccia per raggiungere quello che forse è uno dei grandi tesori della dinastia Quing. Alle sue calcagna oltre agli altri due contendenti si aggiungono l’esercito di occupazione giapponese e ribelli nazionalisti, in una giravolta di parti che tra rapine al treno, sparatorie e folli inseguimenti si districherà nel fatidico triello finale, per recuperare un tesoro che forse alla fine neanche esiste.
Kim Jee-woon è uno dei registi sud-coreani più famosi a livello internazionale. Prima di questo Il buono, il matto, il cattivo ha realizzato due ottimi film, l’horror Two Sisters e il noir Bittersweet Life, e successivamente – dato che il film in oggetto è del 2008 – il celebrato thriller I Saw the Devil. Una carriera variegata nella forma ma sempre aderente ad un immaginario cupo e sanguigno, decisamente pessimista. Sorprende quindi veder emergere all’interno di questo percorso un omaggio anarchico e squisitamente pop come Il buono, il matto, il cattivo, che da Leone prende alla fin fine meno di quanto sembri. Se infatti togliamo il canovaccio narrativo principale e i diversi elementi propri del cinema leonino in generale – l’esplosivo, la rivoluzione, l’oppio tanto per citarne alcuni, topoi incollati tra loro in un patchwork a volte fin troppo posticcio – la sostanza del film è ben lontana dagli standard del western all’italiana, più vicina piuttosto alle sue derive parodiche. Il distacco risulta evidente ad esempio nell’uso degli spazi, che pur rimanendo centrali – sono fondanti come detto sopra per la rivisitazione del genere – vengono piegati ad un uso più spettacolare e frenetico, un carattere adrenalinico che è il vero spartiacque tra il film e il suo modello. A Kim non interessa infatti ricreare l’epica di Leone, men che meno la sua tensione esistenziale allacciata al tema della guerra e della rivoluzione, o il suo pessimismo; per il regista coreano Il buono, il matto, il cattivo è l’occasione di virare in una dimensione altamente spettacolare ed esplosiva quegli stessi spunti di partenza, ritratti con l’occhio pop di una fotografia accesa da colori sgargianti e la recitazione caricata di personaggi buffi e macchiettisti.
Oltre ad essere il segno di un evidente cambio di rotta per la cinematografia orientale, Il buono, il matto, il cattivo è quindi un film sostanzialmente divertente e spensierato, disinnescato di ogni carica politica ma volto allo stesso tempo nella stessa direzione sempre perseguita da Leone: l’alta spettacolarità. L’unica vera pecca della pellicola è che per portare a termine tanta azione Kim ricorra ad un linguaggio visivo si molto ricercato e tecnicamente magistrale, ma anche troppo spesso debitore di certo cinema pulp americano di passaggio secolo, soprattutto per i suoi repentini cambi di angolazione, zoom improvvisi, movimenti di macchina frenetici e panoramiche a schiaffo.