The Hateful Eight
Il più radicale e politico film di Tarantino, immagine-mondo che nasce in 70mm e diventa metafora scoperta di un paese mercificato, scisso, inesorabilmente fondato sulla finzione e la violenza.
Il torto più grande che potremmo fare al cinema di Quentin Tarantino è credere di averne conosciuta ormai ogni forma e misura, come se ad oggi non restasse che sedersi in poltrona a godere del feticcio applicato ad un genere dopo l’altro, uso e consumo del cinefilo più appassionato.
Con The Hateful Eight quello imbastito da Tarantino si conferma piuttosto come uno dei luoghi più preziosi del cinema americano, un incrocio unico nella sua specie e nel quale, dialetticamente, vanno a convergere libertà creativa e consapevolezza critica, assenza di confini e lucidità teorica. Tarantino è davvero uno dei registi più liberi del cinema contemporaneo, intento a superare la cinefilia avantpop e la rivoluzione postmoderna delle origini per approdare ad una forma inedita, refrattaria ad ogni schematismo teorico. Certo, dentro The Hateful Eight dialogano cinema classico e postmoderno, resurrezione e ironia, ma la materia generata da Tarantino ribolle di un’energia che non conosce inquadramenti, e all’interno della quale trova il suo compimento più alto lo spettacolo del Cinema.
I 70 millimetri del glorioso formato Ultra Panavision, il più panoramico e definito in assoluto, consacrano The Hateful Eight come spettacolo cinematografico totale, epitome di quello statuto anacronistico e inevitabilmente provvisorio che Tarantino riesce a restituire, almeno per tre ore e otto minuti di durata, alla magica esperienza della visione su grande schermo. The Hateful Eight diventa così un tempio dell’immagine e del cinema che fu, un canto forse funebre per un’arte che il tempo sta cambiando in modo irreversibile.
La consapevolezza è la stessa che anima da anni il cinema di Paul Thomas Anderson, ma se l’impianto museale di Vizio di forma nasce anzitutto dalla malinconia per l’ultimo spettacolo, Tarantino decide di regalare agli spettatori e all’arte che tanto ama un finale diverso, una festa cinefila all’altezza della sua storia, capace di farsi carico di quel bagaglio sociale, anagrafico e storico che l’immagine condivisa porta con sé, e di resuscitarlo in una creatura vitalissima e gloriosa nel proprio anacronismo.
Ecco così che The Hateful Eight si espande in tutti i suoi 70mm, il cui respiro e profondità generano un’immagine-mondo in cui perdersi e ritrovarsi per la sua vastità, per la densità di elementi e corpi e piani che la attraversano. Il Cinema in una stanza, in cui ogni cambio di fuoco, ogni lento movimento di macchina, ogni panoramica, nascono dalla capacità di Tarantino di resuscitare il formato e adattarlo con profonda aderenza alla materia in atto. The Hateful Eight ha certo in sé un film teatrale, e lo si potrebbe notare oltre che dai caratteri scenografici dall’uso che fa di determinati escamotage (tutto il film ruota attorno alla caffettiera blu poggiata sopra la stufa), ma è il portato cinematografico delle sue immagini a determinarne la natura spettacolare. Nulla è scelto a caso in un film che non fa del proprio formato il suo solo motivo d’essere, ma ne accorpa in sé la gloria e il significato mitologico per nutrirsene narrativamente, emotivamente, formalmente. La resurrezione dei 70mm è all’altezza del loro formato, non una soluzione meramente museale ma una scelta radicata ed essenziale alla stessa natura del film.
Ma quale natura? Quale percorso sta prendendo Tarantino, se la libertà è il carattere che per primo ne contraddistingue la maturazione? Sicuramente non quello del linguaggio fine a sé stesso. Per Tarantino la dimensione linguistica e finzionale del narrato resta sempre in primo piano rispetto al cosiddetto reale, ma di certo il suo cinema non si ferma più allo stile, per quanto pittoresco e riconoscibile esso sia (e qui non lo è più così tanto, asciugato sulla forza primigena del campo/controcampo e della profondità di campo). Il Minnie’s haberdashery è ovviamente un luogo fatto di Cinema, pensato per raccogliere le ossessioni e il percorso di una vita in un modo non dissimile da quanto fatto da Fellini con 8½ (modello neanche troppo nascosto di questo ottavo film della sua carriera).
Tuttavia, come riporta testualmente il personaggio interpretato da Tim Roth, oltre che celluloide e sogno l’emporio di Minnie è metafora sanguigna e granguignolesca degli Stati Uniti dilaniati dalla guerra. Di più, è il segno evidente di come il cinema di Tarantino abbia instaurato negli ultimi anni un rapporto sempre più stretto con la società americana e le sue contraddizioni. I Bastardi, Django e infine The Hateful Eight sono le tappe di un percorso di radicalizzazione e maturazione che pone a confronto la Storia americana con quella dei generi hollywoodiani, categorie chiamate a dialogare in un gioco delle parti che si fa analisi lucidissima di quel rapporto ontologico che la società americana ha con la violenza e il suo racconto cinematografico.
Tra Peckinpah e Carpenter, Il mucchio selvaggio e La cosa, The Hateful Eight riunisce in sé stesso una riflessione sulla natura violenta degli Stati Uniti e un’esplorazione della sua resa grafica, mai così consapevole in Tarantino come in questo momento.
Se per i Bastardi il massacro finale segnava la vittoria del Cinema sulla Storia in una spirale che si nutriva anzitutto del gesto stilistico proprio del b-movie, Django aveva portato la violenza tarantiniana nell’inedito terreno della repulsione, del disagio suscitato da un gesto immoralmente brutale, disumano. The Hateful Eight rilancia radicalmente questo punto di arrivo, mettendo in scena con spietato furore un paese dilaniato dalla diversità e dall’odio, brandelli di una comunità condannata a perire in un mondo fatto di carni in vendita, dove ci si caccia a vicenda e ogni corpo è anzitutto il proprio valore in denaro, mentre fuori la tempesta imperversa come un’apocalisse e la città di Red Rock resta soltanto un lontano ideale.
Tarantino riprende evidentemente il senso apocalittico del capolavoro di Carpenter, richiamato da pochi ma significativi dettagli, e lo rievoca in un western kammerspiel che cova dentro di sé una natura orrorifica sempre sul punto di esplodere. Complice la disturbante colonna sonora firmata da Morricone, The Hateful Eight è ricco di scene in cui, da un momento all’altro, uno qualunque dei protagonisti potrebbe trasformarsi e aggredire gli altri sotto forma della Cosa carpenteriana. Ed è quello che per certi versi accade, in un massacro all’ultimo sangue che racconta di un paese talmente smarrito per cui è solo con la giustizia di frontiera che si può ricucire lo strappo nel tessuto nazionale. Viene in mente, in un paradosso spietato, il filo che riunisce i lembi del trauma di The Walk, il Cinema come atto cristologico capace di richiudere la ferita e guardare in avanti verso la catarsi. Tarantino riporta il tutto alle viscere più terrigne e torbide degli Stati Uniti; qui l’unico filo capace di unire bianchi e neri, nord e sud, è il cappio dell’impiccato, mentre il sacrificio cristologico diventa quello delle vittime casuali e innocenti, uniche figure positive sacrificate da una squadra di personaggi odiosi ma soprattutto carichi di odio, accecati e messi all’angolo dalla loro sete di sangue e vendetta e avidità.
Il nichilismo è apocalittico, la ferocia netta nel mettere in scena quello che appare come un completamento di Lincoln, il portato di violenza che come deformazione ontologica permea l’essenza della comunità e fa da contraltare ai suoi più illuminati e nobili intenti. L’unica realtà capace di restare in vita in questo mondo, nel quale ancora una volta la finzione e la recitazione e la pretesa di essere altro da sé diventano lo strumento principale per ingannare e cercare di sopravvivere, in questo mondo mercificato, scisso, abitato da gusci umani pressoché svuotati di umanità e carichi soltanto di aggressiva ferinità, l’unica cosa che può rimanere è ovviamente il cinema stesso, apoteosi della finzione. Tarantino qui, nolente o volente, approda a John Ford e all’epica della leggenda, unica voce a potersi fare realtà nel mondo apocalittico della frontiera. Nella lettera di Lincoln letta in punto di morte si racchiude il senso di tutto The Hateful Eight, approdo di Tarantino ad un cinema politico le cui carte sono tanto scoperte quanto spietate, tanto radicali quanto totale rimane l’amore e la forza del Cinema, motore primo del mondo e specchio in cui riflettere il legno storto dell’umanità.