Il GGG - Il Grande Gigante Gentile
Steven Spielberg trova nella favola di Dahl i primordi della sua immaginazione, e mentre guarda al mito della Caverna orchestra una lievissima metafora del cinema.
“L’arte del sogno in Dahl mi ricorda la mia sala montaggio. Di solito arrivo in studio pieno di idee e immagini, aspetto che gli smeraldi del set, vagabondi senza asilo, trovino la loro strada di casa, e mi metto all’opera.”
(Steven Spielberg, da Micromega – Almanacco del cinema 2016)
Come in un sogno lungo quarant’anni, Steven Spielberg non è mai tornato dall’Isola che non c’è. Le immagini, miraggi gentili venuti da un altro mondo, sono fughe dalla realtà, chimere di meraviglia dove tutto è possibile. L’analogico ieri, la CGI oggi, nulla è cambiato per chi ha sempre filmato l’invisibile. Si è trattato di dare corpo ai sogni, di considerare l’immagine come il nostro più intimo fantasma. Un’ombra che, proprio come quella dispettosa di Peter Pan, continua a sfuggirci. Si pensi allo sguardo colmo di meraviglia della piccola Sofia di fronte al Gigante, sintesi assoluta di un cinema che è un cristallo, una distesa di sogni nei sogni e di mirabili acrobazie infantili. La tensione tra un campo, quello di chi vede, e un controcampo ignoto e meraviglioso, è in fondo una forza animista, fiabesca e perfino primordiale (guardando Il GGG - Il Grande Gigante Gentile la mente si rivolge agli uomini delle caverne, al mondo esterno proiettato come un’ombra gigantesca sempre in agguato).
Si pensi alla filmografia di Spielberg, al piccolo David, sepolto dai ghiacci del tempo, con gli occhi inebriati dalla Fata Turchina. Si pensi al François Truffaut di Incontri Ravvicinati che sussurra a Richard Dreyfuss quel leggendario “Io la invidio”: il cinema di Spielberg è un cinema di reinvenzione assoluta, di fiducia sconfinata nei confronti dello sguardo. Il Grande Gigante Gentile si pone come anticamera del suo immaginario, come infanzia eterna e continuamente autorigenerantesi nella fede cieca verso l’umano. Spielberg trova in Roald Dahl i primordi della sua immaginazione, elabora il Mito della Caverna come enorme metafora del cinema tutto. Alimenta l’ignoto con la proporzione, coniugando l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Ne esce la grande illusione, l’attrito magico tra noi e l’immagine proiettata, più grande, più bella, più nitida, perfino più vera.
L’ombra del Gigante che si muove per le vie di Londra coincide con la proiezione su grande schermo, con il soggetto che si fa improvvisamente enorme, alchemico, come in un film di Meliés. La luce bluastra, densa di magici afflati, scrive e disegna il mondo. Londra diviene la culla alla Dickens retroilluminata dall’Isola che non c’è. I sogni, infine, sono proprio come fate, scintillanti d’eterno amore e di magia senza fine. Mille ipotetiche Trilli continuano a vivere e volare in un mondo ribaltato tra il sonno e la veglia. Il corpo del Gigante, che sente ancora prima di vedere con le sue grandi orecchie gentili, è il custode della nostra infanzia (proprio come Spielberg). Il suo inesauribile fiato modella la nostra immaginazione, quasi come se Spielberg e Dahl prima di lui pensassero che noi apparteniamo alla Fantasia, e non viceversa. Siamo tutti spettri, piccole proiezioni di una terra lontana, di un mondo subacqueo che tocca il cielo. Questa Fantasia è una sorta di entità magmatica, di elisir liquido, di luce ballerina che deve essere soffiata in noi. E quel GGG, Spielberg stesso, può passare dalla terra delle fate alla Londra della regina, facendo del mondo intero un’enorme slapstick. E’ proprio qui che torna finalmente il peso della gag da cui tutto, in fondo, era nato. E alla stregua del Gigante dahliano, in sala di montaggio Spielberg orchestra una partitura di meraviglie, fa di ogni immagine un sogno, illuminando quell’isola cui vorremmo sempre tornare per vivere come bimbi sperduti.