Ritorno all'Avana
Ritorno all'Avana di Laurent Cantet è un piccolo ma grande film, che apre la porte alla vita con una sincerità e un umanismo di straordinaria intensità.
Dai balli al tramonto agli abbracci all’alba, dai sorrisi malinconici della notte alle lacrime amare di una vita di rimpianti. Dai ricordi di un paese che non esiste più alle singole, brucianti affezioni che ci mantengono vivi. Ritorno ad Itaca è un film che apre le porte alla vita, mentre si nutre delle parole di chi non può più stare in silenzio perché ha troppa paura di rimanere solo. Con la delicatezza estrema di un cineasta in lacrime, Laurent Cantet ama i suoi personaggi, li accarezza con sguardo commosso e tumido di tenerezza, li rispetta a tal punto da sparire. La sua macchina da presa è sempre attenta a non invadere la loro intimità, a non farsi vedere né sentire, lontana dai vezzi o dalla retorica di chi ha smesso di credere nell’autenticità di uno sguardo. Regista morale fino all’invisibilità, Cantet è grande perché cammina in punta di piedi, guarda ma non oltrepassa, dando l’impressione che non esistano battute, non esista nemmeno alcun set, ma che si stia filmando davvero la vita reale.
Cinque personaggi, amici di una vita, si riuniscono per una notte in una terrazza che si affaccia su l’Havana: parlano, bevono, ballano, mangiano, si confidano segreti e si confessano rammarichi, si feriscono e si offendono, mentre con le parole tracciano l’affresco di una Cuba che non esiste più. Lo spettatore, da parte sua, si trova catapultato su quella terrazza, come se fosse uno di loro, come se conoscesse questi cinque signori attempati da una vita e fosse lì pronto a credergli ma, soprattutto, a volergli bene.
In questo continuo ritrarsi, sottrarsi del filmico, di ogni ipotesi di costruzione, risiede tutta la sincerità, l’autenticità di Ritorno ad Itaca. Cantet evita lo stratagemma facile del flashback credendo, dal primo all’ultimo minuto del film, in un cinema evocativo fino al midollo. Qui i ricordi sono così intimi da essere sacri, mostrarli vorrebbe dire violarli o alterarli, l’unico modo per non tradirli è allora quello di limitarsi a narrarli. Il tempo, vero protagonista del film, torna sempre a presentare il conto, la memoria a porsi come ipotesi di conflitto, quale tremenda, costante consapevolezza della propria fine. Ed è un tempo che scorre implacabile, un tempo che continua, perché il film è solo un estratto, la vera storia è tutta fuoricampo. Come a dire, l’esistenza continua, che sia vittoria o condanna, che sia gioia o dolore, e con il cuore trafitto si potrà forse tornare a vivere. Per le strade de l’Havana, spiate dalla terrazza, le persone urlano e camminano, protagoniste di un paese che muta inesorabilmente. I protagonisti di Ritorno ad Itaca stanno a guardare: loro fanno parte di un altro mondo, di un altra Cuba, che può solo limitarsi ad osservare a distanza il nuovo che avanza. E’ come se la terrazza fosse un luogo isolato e chimerico, una geografia della memoria, il posto in cui ritrovarsi e tornare a guardarsi negli occhi. Ma è anche il tribunale dove fare i conti con la propria esistenza, il luogo della verità dove nulla può esser più taciuto, con l’augurio di addormentarsi e risvegliarsi poi sotto una nuova, auratica luce. Un abbraccio all’alba, lo sguardo puntato verso un cielo famigliare eppure sconosciuto.
Cinema umanista fino al midollo che, nonostante tutto, non può fare a meno di continuare a credere nelle persone. Il film (non) finisce ed è allora che ci si scopre a piangere.