Il regno d'inverno - Winter Sleep
Un'opera verbosa che nasconde sotto i lunghissimi dialoghi e l'eleganza della rappresentazione un grande vuoto narrativo e emotivo
Il testo è un mezzo per comunicare, volgersi all’esterno, proiettarsi nel mondo. Ma è anche un muro, una lastra di vetro che illude con la sua trasparenza di mostrare il vero. Un’opera cinematografica che decida di fare della letterarietà lo stilema principale rivela la sua autenticità nel senso che vede al dialogo come un luogo di confessione o al contrario, di nascondiglio. Nel caso di Il regno d’inverno - Winter Sleep, Palma d’Oro a Cannes per il regista turco Nuri Bilge Ceylan, il discorso si fa metalinguistico, poiché l’uso del linguaggio racconta non solo la ritrosia dei protagonisti ma anche dello stesso autore verso una sincera analisi dell’animo umano.
In effetti Il regno d’ inverno - Winter Sleep si muove dentro l’intelaiatura di un’autorialità più esteriore che reale: i personaggi, calati in un contesto teatrale di sequenze dialogiche, rispondono alle aspettative di un pubblico letterario, vivendo un dramma dal respiro ottocentesco. Aydin è il classico uomo buono ma ignavo, facile a giustificare la propria immobilità morale con la continua rivendicazione di un credo filosofico volto all’armonia e alla giustizia, colto in un mondo – un piccolo albergo innevato in un villaggio dell’Anatolia – che respinge la sua integrità mai messa alla prova con esplosioni di rabbia, dalla giovane moglie alla ricerca di un’indipendenza mentale, alla sorella costretta a vivere con fratello dopo aver abbandonato il marito. Sullo sfondo le famiglie povere cui Aydin affitta case, punite con pignoramenti e sfratti ogni volta che mancano un pagamento: in particolare un uomo alcolizzato e il figlio, che ha visto il padre pestato dalla polizia a causa dei debiti, riveleranno col proprio odio l’ipocrisia delle buone intenzioni dei padroni tanto educati, gentili e pronti a girarsi dall’altra parte quando i servi devono fare il lavoro sporco al posto loro.
Facile tacitare il film di eccessiva durata (tre ore abbondanti) e verbosità, ma la questione qui non riguarda il tempo dell’opera, ma l’uso che se ne fa. Ceylan possiede gli stessi difetti che descrive in Aydin, quel cercare l’approvazione altrui attraverso la citazione di quei termini che sa risultare profondi all’interlocutore: come il frequente far ricorso ai proverbi del suo protagonista, il regista turco nasconde la mancanza di una sincera vena narrativa negli splendidi scenari dell’Anatolia invernale, nella teatralità di sequenze lunghissime in campo controcampo nella quali in teoria i personaggi dovrebbero confessare le proprie debolezze per toccare il vertice di un’analisi spietata sulla natura umana. Nulla manca nella forma a Il regno d’inverno - Winter Sleep per essere un grande film, e non a caso, la giuria di Cannes, forse incantata dallo splendido prodotto culturale così efficacemente confezionato, gli ha consegnato il premio più importante; nulla, se non quell’onestà che impedisce a Aydin di farsi amare da chi gli sta intorno, e allo spettatore di abbandonarsi al racconto di Ceylan.
Laddove la verbosità diviene sinonimo di menzogna, sono i personaggi muti, padre e figlio chiusi in un silenzio assordante, a mostrare qualche scintilla di reale emozione, qualora rinnegano le belle parole con la violenza delle proprie azioni. Soldi gettati nel fuoco, sassi lanciati contro i vetri, raccontano le potenzialità di un racconto maggiormente incisivo, un’occasione perduta nell’ansia di toccare l’altro con la pretesa puerile, però, di non svelarsi mai. Per Aydin e Ceylan, una doppia sconfitta.