Informatore medico: sulla carta è colui che gira per ospedali e studi mostrando ai dottori i nuovi prodotti della propria casa farmaceutica, in pratica si garantisce con regali e favori un tot minimo di prescrizioni favorevoli alla proprio azienda. Si chiama comparaggio, un reato tristemente diffuso nel nostro paese, l’unico modo per dare visibilità a migliaia di prodotti utili solo ad aumentare gli introiti di chi li produce, farmaci formulati, con principi poco testati o pieni di effetti collaterali Non è un bel lavoro, né un modo facile di procurarsi da vivere ma a Bruno (Claudio Santamaria) aveva permesso col tempo di garantirsi una certa tranquillità economica, una casa, una moglie. Poi è arrivata la crisi, ogni sicurezza è scomparsa e sopravvivere è divenuta una guerra quotidiana contro i concorrenti, i medici onesti, quelli troppo volubili, una lotta continua fatta di prevaricazioni, lusinghe, bustarelle, mentre a casa la consorte ignara di tutto si dà da fare per mettere in cantiere un figlio che potrebbe incrinare definitivamente il fragile equilibrio su cui ondeggia l’uomo. Rimane solo un’ultima possibilità, riuscire a comprare l’importante primario di un ospedale (Marco Travaglio) e ottenere l’ordinazione dei farmaci per il cancro, i più costosi in campo medico.
Antonio Morabito rivolta il punto di vista morale dello spettatore mettendo al centro della storia un uomo qualsiasi, né cattivo né avido, solo disperato, per cui si finisce per parteggiare, benché le sue azioni significhino truffa, corruzione e un probabile avvelenamento di pazienti che del tutto ingenui si affidano al volto fidato del proprio vecchio medico di base. Bruno corre da un posto all’altro, nasconde a colleghi e cari la propria paura coltivando un’immagine di professionista di successo; di fronte alla prospettiva del fallimento ogni valore morale è venuto meno, trasformandosi in un lusso. Raccontare la sua storia di derelitto significa fare luce su quella parte di paese messa da parte in favore di una semplicistica divisione del popolo in buoni e cattivi, vittime e carnefici (inutile chiedere a se stessi in quale categoria pensiamo di dover stare). Un ottimo Claudio Santamaria incarna un cittadino medio, non troppo stupido, capace di qualche slancio di bontà ma inevitabilmente dipendente dai poteri che gli procurano il cibo. Salendo di livello in livello nella gerarchia sociale c’è sempre qualcuno cui ubbidire e qualcuno da comandare, agli ordini vanno sacrificate le proprie istanze etiche perché altrimenti non si mangia, e le regole stesse non hanno valore quando non garantiscono il benessere che dovrebbero assicurare. È una guerra fra poveri dalla quale si estraniano i poteri forti che nello stesso film non appaiono mai, ma che vegliano su un esercito di soldati semplici che si azzannano l’un l’altro per un pezzo di pane. Il venditore di medicine è allora storia di un declino personale e di quello nazionale, incarnata nell’incrinatura della categoria professionale che più necessita la nostra fiducia. L’unico tassello della storia che Morabito ha dimenticato di raccontare è la reazione complessiva con cui si è reagito alla questione: un’ondata di paranoia complottista che non ha certo migliorato l’atmosfera complessiva del paese, ma, una volta caduti i punti di riferimento fondamentali, non ci poteva aspettare altro. Si può solo sperare che fra lobby fameliche di guadagni, ansiolitici prescritti ai bambini e antibiotici ingoiati come caramelle da una parte, e corse ai santoni guaritori, omeopatia e massicce dosi di vitamine dall’altra, ci sia prima o poi una luce in fondo al tunnel.