The Imitation Game

Nonostante la grande prova d'attore di Benedict Cumberbatch, il film su Alan Turing si rivela il peggior tipo di biopic.

Il meccanismo è sempre lo stesso, spietato e crudele: quello che porta un film a essere imprigionato tra una didascalia in apertura (“tratto da una storia vera”) e un’altra in chiusura (con la “spiegazione” della reale vicenda dei protagonisti). Il biopic, insomma, che ancora oggi rimane il genere più difficile al mondo. Perché è impresa ardua e folle anche solamente il pensare di poter ridurre la complessità di una vita alla durata di un film, con tutte le convenzioni e i sacrifici che questo comporta. “Bisognerebbe scegliere un anno nella vita di una persona, e raccontare tutto di quell’anno”, disse una volta Michael Mann; e non è un caso che proprio lui abbia fatto una cosa simile con Alì (il decennio che va dal 1964 al 1974), e addirittura più radicale con Nemico pubblico (gli ultimi mesi di John Dillinger), solamente per fare due esempi tra tanti. The Imitation Game invece abbraccia il genere nella sua forma più convenzionale (causa/effetto), nonostante qualche (risaputo) rimescolamento cronologico di una struttura a flashback su tre momenti fondamentali nella vita del matematico Alan Turing (Benedict Cumberbatch): la scoperta del primo amore tra i banchi di scuola, la decifrazione del codice Enigma e gli ultimi tragici anni prima del suicidio, avvenuto nel 1954.

Cinema concepito come un compito da primi della classe, nel quale ci si guarda bene dall’allontanarsi da uno schema ben preciso e preconfezionato: il film di Morten Tyldum gode di una vicenda che appassionante lo è davvero, indiscutibilmente; ma la sminuisce e la mortifica, la appiattisce alla stregua di un racconto televisivo perfetto per una prima serata casalinga, con tanto di pause che sembrano già belle e pronte per essere riempite dalle interruzioni pubblicitarie. Difficile trovare un’idea o una visione in un film che, per dirla alla Serge Daney, è sì su Alan Turing, ma non con Alan Turing: fedele al reale svolgimento dei fatti ma messo in scena senza passione e talmente prevedibile nella realizzazione che, davvero, lo spettatore si ritrova sempre un passo avanti, ad ogni stacco di montaggio, ad ogni cambio di scena. Non c’è la follia del protagonista, la sua solitudine o il suo rapporto con la Storia; Storia che a volte entra a farvi capolino per poi sparire subito dopo, senza approfondire quegli aspetti scomodi che avrebbero trasfigurato il tutto in qualcosa di ben più complesso ed entusiasmante (come ad esempio la scelta, tragica e dolorosa, di quali obiettivi salvare attraverso il codice e quali no).

Resta la magna interpretazione di uno dei migliori attori della sua generazione, è vero; ma anche qui, senza uno sguardo forte dietro la macchina da presa, il rischio della leziosità è dietro l’angolo.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 10/01/2015

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