Incompresa

Uno sfogliare cadenzato e fluido di pagine di diario, una mano che cerca, tra un collage di icone dell’immaginario anni Ottanta, uno spazio bianco su cui riportare, a grandi lettere, le puerili riflessioni di un processo di costruzione dell’io che inizia a scontrarsi con la cruda realtà del mondo. Leggiamo “Aria is strong!”, ma la penna che scrive è sorretta da una mano che trema. La sequenza che apre Incompresa – terzo film da regista di Asia Argento presentato fuori concorso alla Sessantasettesima edizione del festival di Cannes – si presenta come sorta di dichiarazione di poetica, o meglio, di epitome dell’opera. Non vediamo in campo la piccola protagonista Aria (Giulia Salerno), ma vediamo la sua emanazione imprimersi in un mondo sovraffollato di immagini ingombranti, kitsch, dichiaratamente volgari ed eccessive, andando però ad alimentare e legittimare tale mondo nell’esatto istante in cui si propone di sovvertirlo attraverso l’inserimento, in tale contesto, delle istanze “di rottura” dell’ordine costituito. E se il risultato finisce appunto per sovvertire l’intento, questo avviene perché la parola pronunciata (o mostrata) è pura superficie, si costruisce sotto l’impulso all’emulazione pedissequa e adulatoria della forma istituzionalizzata e controllata dal mondo adulto. E non parliamo soltanto della forma artistica, ma in primo luogo delle forme del pensiero e della comunicazione.

Troviamo dunque, alla fine del prologo, un’inquadratura dalla tonalità malinconica – la fotografia è curata da Nicola Pecorini – che ci mostra per la prima volta la protagonista e la sua voice over che ci introduce nell’esautorante e, al tempo stesso, autocelebrativo mondo borghese sul quale muove i propri passi. Le parole di questo piatto bildungsroman dai chiari toni autobiografici che Aria racconta, in primis a se stessa e in secondo luogo allo spettatore, assumono i toni patetici e stucchevoli della piccola (e altrettanto borghese) protagonista del romanzo L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, che riflette su eros e thanatos con la stessa padronanza dell’intellettuale, o l’artista, naïf che crede fuori dalle righe un discorso più che convenzionale. La regista finisce per costruisce un mondo palcoscenico semplicistico, stereotipato, abitato da maschere senza anima, dalla caratterizzazione definita dalla convenzione – come da tradizione delle maschere teatrali – e dall’interiorità mal strutturata e prevedibile.

La piccola Aria è una bambina di nove anni dalla spiccata sensibilità, che cerca di farsi spazio tra le macerie della terra desolata della famiglia borghese frantumata. Un padre (Gabriel Garko), attore incapace, narciso e misogino che dispensa le sue attenzioni soltanto alla figlia più grande, Lucrezia (Carolina Poccioni), un’adolescente viziata cresciuta sotto la coercizione delle televisioni private e di una figura paterna che vogliono modellarla come una bambolina da mettere sotto le luci della ribalta; una madre (Charlotte Gainsbourg) pianista nevrotica e depressa, incapace di stare al mondo e dalla personalità pronta a essere plasmata dall’amante di turno. La separazione dei genitori costringe la piccola protagonista a fare la spola da una casa all’altra alla ricerca di affetto, o quantomeno di attenzione, ma ciò che trova è un universo abitato da idioti, i quali, muovendosi e strutturando rapporti di potere degradati e patetici nella dimensione adulta e genitoriale, affettano anche l’universo verace dei più piccoli condannandoli a un’esistenza inconsistente, quando non biecamente reazionaria. Una richiesta di ascolto e comprensione che non può essere accolta da un microcosmo borghese intento al gioco del piccolo artista incompreso, del punk “iconoclasta” o del socialista da salotto buono. E non può essere accolto perché le grida di aiuto del mondo dei bambini utilizzano lo stesso linguaggio superficiale, posticcio e anempatico di quello degli adulti.

Se l’obiettivo della Argento fosse stato quello di ricreare un ambiente in cui la sterilità del pensiero e dei sentimenti umani viene assorbito a tutti i livelli (dall’infante all’anziano) alimentando nevrosi, vizi, competizione, lagnosità borghesi che ostruiscono l’intero campo visivo, in cui l’empatizzare con i protagonisti risulta impossibile, si sarebbe potuto parlare, a causa della mancanza di un lavoro in profondità a livello di racconto filmico, delle personalità dei personaggi e delle loro relazioni, semplicemente di film brutto. Mentre invece siamo costretti ad aggiungere anche l’aggettivo fallimentare, in quanto è dichiarato l’intento della regista di portare la mdp all’altezza della piccola Aria, e palese il suo arenarsi nella messa in pratica di questo metodo di avvicinamento. Un approccio ravvicinato che fallisce nel suo presentarsi come verticale, discendente, in cui si palesa il fallimento del progetto primario dell’autrice: quello di raccontare, attraverso il punto di vista dell’infanzia, la favola dello scontro tra individualità di una bambina e mondo esterno, ed educare all’empatia un pubblico ormai anestetizzato dal raccontare cinico del narratore adulto. Aria cerca di farsi largo tra lo spazio pubblico e quello privato cercando di costruirsi un suo orizzonte, in cui possa essere ascoltata, compresa, apprezzata. Un orizzonte in cui il suo ego possa esprimersi ed essere riconosciuto e legittimato per la sua straordinarietà umana e artistica. “Aria is strong!” è anche un grido di esorcizzazione atto a proteggere la propria autostima dall’oblio di un fallimento possibile, nel caso il mondo si dovesse accorgere dei suoi artigli non affilati, dei suoi denti spuntati, delle sue polveri bagnate. Asia Argento, come Aria, tira fuori le unghie e mostra gli artigli – armi innocue che cercano di apparire icastiche – tentando di legittimare la sua presenza in un mondo di immagini di superficie. La mano tremolante della bambina che scrive “Aria is strong” fa il doppio con quella registica della Argento, la quale sembra scrivere sullo schermo un infantile “Asia is strong!”.

Autore: Paolo Scire
Pubblicato il 09/08/2014

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