CINEMA E TEMPO - Terminator
Il fascino discreto dell'Apocalisse: l'umanismo action di James Cameron (e di Christopher Nolan).
[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].
Per essere l'archetipica incarnazione action del film sul viaggio nel tempo, Terminator resta una riflessione sul tema a dir poco ambigua. Una cosa su cui lo stesso James Cameron sembra aver perso il focus, almeno a giudicare dalle modalità di produzione dei sequel, è proprio la peculiarità della sua intuizione primigenia; figlia di un sogno avuto dopo lettura di Ranxerox durante le riprese di Piranha II a Roma (come racconta la leggenda, e come è convintissimo Tamburini), la sanguinosa lotta di Sarah Connor non è infatti la reazione al disgregarsi della temporalità, né il contrattacco alle manovre battagliere del net inumano e postatomico. L'epica sci-fi è a suo modo una sovrastruttura; il drive di Terminator è quello di una persona indifesa (ragazze, bambini) di fronte all'avanzare di una minaccia inorganica inarrestabile. Frontale per definizione, dunque lineare - nulla da spartire con le manovre a tenaglia e i gorghi teorici di Tenet, nuovo grande polo action nella narrativa del time travel.
Stravolgere il passato arginandone gli effetti sul presente; il "paradosso del nonno" citato dal regista britannico ha fatto negli anni da base alle declinazioni più famose del filone. Le trovate filmiche per raccontare la contorsione del nastro di Moebius temporale sono tante, dai sempiterni universi paralleli che tutto risolvono, alla più diretta e visuale causa-effetto (era una delle trovate del sottovalutato Looper); ma nel primo Terminator, il dilemma è escluso dalla questione. Per Cameron, nonostante un fugace riferimento ai "futuri possibili" (scenario che la saga lascerà presto da parte in favore di un mesto e nichilista fatalismo), opporsi alla minaccia presente tramite l'intervento sul passato è illusorio: tutto esiste come già scritto, il Destino si ripresenta dopo essere stato investito, incendiato, fatto esplodere. In un certo senso, Terminator è quindi la negazione del Viaggio nel Tempo stesso – un tempo millenarista e non circolare, inscalfibile ai tentativi di deragliamento operati dal Cyborg, piegato a una volontà suprema semidivina (del regista, la storia, lo script) che provvidenzialmente azzera gli intenti del povero T-800.
Nel racconto di Cameron, i buoni diventano i guardiani di questa provvidenzialità, in missione per preservare la sequenza storica degli eventi. Una missione conservativa, a difesa dell'essere, contrapposta all'intervento riparatorio dal futuro solitamente trope del genere (fatto suo anche da Nolan). Sarah Connor e Kyle Reese non cercano di opporsi a una Apocalisse riconosciuta come inevitabile (nichilismo), ma sono anzi chiamati a tutelare lo svolgimento scritto di questa (fatalismo); in un certo senso, John Connor è l'Andrei Sator di James Cameron, personaggi cristologici la cui opposta lettura evidenza tutta la differenza tra i due autori.
Il punto in cui Tenet e Terminator si intersecano a sorpresa è altrove; sta nel mutuo racconto di una resistenza comunitaria, familiare, sentimentale, nei confronti dell'aggressione dello status quo perpetrata da una tecnologia avversa. Un cuore umano e umanista che, se da sempre è proprio di Cameron, stordisce ritrovare nell'inumano e anti-umanista Nolan. Questo Orologiaio mooriano solitamente legato ai propri personaggi come un biologo ai suoi scarabei sotto vetro, nel suo film più caldo si riscopre difensore dell'amicizia, della solidarietà, persino dell'amore (ovviamente frigido e asessuato, come suo standard); così, la disperata corsa temporale a ritroso diventa soprattutto una storia di cameratismo, sacrificio personale per la salvezza di una comunità in rovina. La preservazione di una essenza umana minacciata dalle manovre dell'inorganico: un tema parallelo a quello di Terminator, con un collegamento evidente nel chiasmo di protagonisti Hamilton-Biehn/Washington-Pattinson. Un cambio di passo bizzarro in un sottogenere per natura votato al cinismo, alla distruzione delle individualità (basti il paragone con Marker/Gilliam).
Ma se in Nolan la meraviglia dello sci-fi rappresenta l'ultima spiaggia dell'umanità a un passo dall'estinzione, nella poetica del primo Cameron (da sempre quella dello scontro a perdere tra le persone e la Macchina – sociale, scientifica, metafisica) il piegarsi a essa resta una mortale prova di hybris; è il motore dell'Apocalisse, che appartiene ai mostri, e di cui i protagonisti devono farsi custodi.