CINEMA E TEMPO - L'uomo venuto dall'impossibile
Il tempo per Meyer è un'illusione al pari del cinema: un serbatoio di forme, modelli e figure con cui giocare liberamente.
«If you’re lost you can look and you’ll find me, time after time»
Cindy Lauper, Time After Time
«Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro,
che sono stato il precursore del XX secolo»
Jack the Ripper, From Hell
Nella sua vita, ancora prima di essere un romanziere, H.G Wells è stato un utopista, un inventore di futuri possibili, tanto da preconizzare attraverso le sue opere fenomeni di portate epocale come: il socialismo, le guerre mondiali, i viaggi spaziali e l’emancipazione femminile. Nei panni dei suoi personaggi Wells ha attraversato il passato, a partire dall’età della pietra (Un racconto dell’Età della Pietra), per raggiungere il presente, fino a spingersi verso altri futuri: sia quelli che avevano risolto i penosi problemi della sua epoca (Nei giorni della cometa), sia quelli che avevano fallito (La guerra dell’aria). A bordo della sua creazione più longeva – la macchina del tempo – è andato ed è tornato più volte per narrare ciò che aveva visto; la sua macchina è diventata la matrice stessa, lo strumento e il meccanismo creativo della narrativa che ha contribuito a plasmare: la fantascienza. Per questa ragione il cinema non ha mai smesso di amarlo e se ancora oggi può esplorare le insidie e le meraviglie che si celano tra le pieghe del tempo e dello spazio, può farlo prendendo in prestito le sue intuizioni letterarie.
Ora immaginate cosa accadrebbe se Wells, oltre che scriverne, avesse “realmente” creato un marchingegno in grado di viaggiare nel tempo. Lo utilizzerebbe davvero per conoscere cosa gli riserva il futuro o ne avrebbe timore? E se il suo dispositivo cadesse inavvertitamente nelle mani sbagliate? Sono queste le premesse teoriche da cui parte lo scrittore di best-seller Nicholas Meyer per mettere a punto una delle digressioni cinematografiche più originali e affascinanti, tratte da un’opera di Wells: L’uomo venuto dall’impossibile (Time After Time, 1979). Sulla scia del successo ottenuto dal sul brillante pastiche letterario dedicato a Sherlock Holmes (Sherlock Holmes: Soluzione sette per cento) Meyer esordisce al cinema con un’altra avvincente avventura “d’altri tempi” a base di suspence, adrenalina e romanticismo, che nasconde - tra le righe - un’aspra riflessione sulla duplicità dell’animo umano e sulla natura endemica del male. Protagonista della storia è il visionario romanziere inglese – interpretato da Malcolm McDowell – qui nelle vesti inedite di uno stralunato detective all’inseguimento del serial killer per antonomasia - Jack lo Squartatore (David Warner) - fuggito dal passato per rifugiarsi nel futuro, approfittando delle possibilità tecnologiche offerte dall’ingenuo inventore della macchina del tempo.
Dieci anni dopo il primo adattamento cinematografico di H.G Wells, Meyer dirige quello che oggi definiremmo una sorta di sequel spirtuale o remake alternativo del film culto L’Uomo che visse nel futuro di George Pal del 1960, spostando il focus dell’azione dall’Inghilterra vittoriana di fine ottocento all’America post Watergate dei tardi anni settanta. Infatti è soltanto compiendo un viaggio nel presente che Wells comprende come, attraverso la visione disincantata del regista, il futuro utopico da lui teorizzato in realtà non sia altro che una “terra straniera”: un’epoca fredda e inospitale dove la violenza – spettacolarizzata dai mass-media - è all’ordine del giorno. La società è ormai assuefatta a ogni tipo di sopruso tanto che il serial killer può agire in maniera del tutto indisturbata. Come osserva lo stesso Jack lo Squartatore, quella società non gioca secondo le regole civili ipotizzate da Wells - il cui idealismo è sconfitto in partenza - ma secondo la logica brutale del cinico doppelgänger del protagonista: uno spietato precursore della modernità, che ritroveremo fatalmente in un ruolo analogo anche nel coevo Assassinio su commissione di Bob Clark. Anche in questo caso, come nel film di Pal, sarà soltanto l’amore di una giovane e risoluta donna del futuro - l’attrice Mary Steenburgen - a salvare Wells dall’autocommiserazione, impedendo così alla sua nemesi di perpetrare i suoi crimini ad libitum.
Al di là dell’enfasi sulla meccanizzazione del viaggio nel tempo e le relative implicazioni etiche e morali, per Meyer l’archetipo del viaggio è solo un pretesto, un escamotage narrativo, che utilizza per dare forma e sostanza ai sogni (e agli incubi) del suo tempo. Il suo è un viaggio metaforico al termine dell’utopia che ha caratterizzato gli anni sessanta, un tour delle contraddizioni della sua generazione che ha visto tramontare i grandi ideali di “pace e amore”, travolti dalla guerra del Vietnam, l’assassinio dei Kennedy e quello di Martin Luther King. È un ritratto caustico degli anni settanta camuffato da commedia sci-fi. Non a caso il film è ambientato proprio nella città di S. Francisco nel 1979, quando l’ex capitale mondiale del “flower power” era ormai assurta alle cronache del tempo come “riserva di caccia” del “Killer dello Zodiaco”, le cui azioni riverberano nelle parole e nei gesti del primo predatore seriale della storia moderna. Il film ribadisce l’abilità del regista statunitense nel riuscire a raccontare storie ucroniche sulla base di audaci paradossi temporali, amalgamando con ironia personaggi reali e fittizi, digressioni filosofiche e considerazioni personali. Come per altri autori postmoderni anche per Meyer il tempo è un’illusione al pari del cinema, tanto è vero che il regista non inventa nulla in senso letterale ma preferisce riscrivere, riutilizzare, rivisitare ciò che è stato immaginato da altri. Tutte caratteristiche che emergeranno in seguito anche nei lungometraggi di Star Trek – di cui dirigerà alcuni dei capitoli più apprezzati dai fan della saga – e in modo ancora più evidente nel suo (post)apocalittico film tv The Day After del 1983.
Nominato per il premio Hugo nel 1980 e vincitore di ben tre Saturn Awards (gli Oscar della fantascienza), Time After Time pur senza essere un capolavoro assoluto del suo genere resta – a quarant’anni di distanza dalla sua realizzazione - una pietra miliare per chiunque si approcci alla fantascienza moderna. Il film anticipa e sintetizza di fatto tutti quei meccanismi narrativi e quegli elementi stilistici che, a partire dagli anni ottanta, ritroveremo disseminati in ogni pellicola incentrata sul tema del viaggio nel tempo: da Terminator a Ritorno al Futuro, fino ad arrivare ai giorni nostri. Perché, se è vero che la fortunata trilogia di Zemeckis è debitrice in primis dell’adattamento di George Pal, lo è altrettanto del suo aggiornamento a cura di Meyer, di cui Ritorno al Futuro - soprattutto il terzo capitolo - rielaborerà personaggi, suggestioni e riferimenti.
In particolar modo quella malinconica considerazione finale di H.G Wells al termine del suo viaggio nel futuro, secondo cui: «Ogni epoca è uguale alla precedente, soltanto l’amore le rende più sopportabili!»