Un altro giro
I giorni ritrovati di Thomas Vinterberg: “Druk” prende il moralismo e lo scioglie in un baccanale dionisiaco. Oscar al migliore film straniero.
Fin dall’inizio dei tempi l’uomo si ritrova davanti a un bicchiere. Chi siamo noi per contraddirlo? La letteratura canta le lodi dell’alcool dall’antichità: partendo dai greci e latini, e ancora prima, per arrivare all’età moderna, al vino poetizzato da Baudelaire, sfociando nel contemporaneo con gli eccessi della Beat e non solo. Charles Bukowski, in un racconto di Storie di ordinaria follia, osserva un’anziana signora irreprensibile e si chiede: «Come avran fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa?». Poi naturalmente c’è il cinema. Che l’alcool lo ha sempre inscenato implicitamente, con il whisky impugnato da Humphrey Bogart (come nella vita, d’altronde), e in modo esplicito nelle opere frontali sull’alcolismo: basti pensare a Giorni perduti di Billy Wilder (The Lost Weekend, 1945), che nella Hollywood classica raccontava la parabola di un alcolizzato, ovvero lo scrittore "perduto" incarnato da Ray Milland. Di alcool è imbevuta la cine-letteratura del Novecento, incluso il fumetto, con Tiziano Sclavi che negli anni Ottanta assegnava a Dylan Dog il tratto distintivo di ex alcolista come l’autore, generando da esso grandi storie (Il fantasma di Anna Never, 1987). E da poco abbiamo visto il Churchill di Gary Oldman, ne L’ora più buia di Joe Wright, che non si arrende ai nazisti con discorsi radiofonici impastati dall’alcool. Ed Herzog incontra Gorbaciov, col cineasta che dice del leader sovietico: «Si capiva subito che era diverso dagli altri: non beveva». E soprattutto la manovra spericolata del pilota Whip di Denzel Washington, in Flight di Robert Zemeckis, film sull’alcolismo e sul dubbio, sulla necessità di mettersi in dubbio per combatterlo (ma quella manovra, forse, non era poi così sbagliata).
Proprio nell’era del Covid e delle bevute casalinghe, in modo preterintenzionale, si innesta Druk di Thomas Vinterberg (Ubriacarsi), in italiano Un altro giro, titolo nato nei festival d’emergenza (bollinato da Cannes, proiettato alla Festa di Roma), cresciuto grazie anche alla presenza di Mads Mikkelsen e infine portato in trionfo: Oscar 2021 come migliore film straniero nella storica edizione di ripartenza dell’Academy.
Il regista danese mette in scena l’esperimento di quattro docenti di scuola superiore, ormai in declino e piegati dalla routine, guidati dal Martin di Mikkelsen: ingerire una determinata quantità di alcool e mantenere un livello costante tutto il giorno, senza mai esagerare, per migliorare le condizioni di vita e lavoro. Ma, prima di tutto, un indizio lo fornisce la citazione di Kierkegaard posta in esergo: «Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto di un sogno». Giovinezza e amore sono quindi le premesse che disegnano le quattro figure: la prima è svanita, la seconda è una chimera da rincorrere, come dimostra Martin e il suo rapporto sfilacciato con la moglie. Il “sogno” è l’utopia del benessere, il tentativo disperato di stare bene dopo i 50 anni. Così i quattro amici iniziano a bere nella quantità stabilita.
L’esperimento è scientifico, condotto con perizia chirurgica, ma l’alcool può sfuggire di mano. In tal senso il racconto, nel suo graduale progredire, mostra i possibili effetti sui diversi caratteri: se Martin sembra recuperare il legame con la compagna, la sostanza dell’insegnamento e insomma le redini della vita, il maestro di ginnastica Tommy (Thomas Bo Larsen, non inferiore a Mikkelsen) imbocca invece una china fatale. Nel frattempo il bicchiere può davvero sciogliere il proprio granito interiore, come dimostra, genialmente, la sequenza dello studente che dopo un goccetto - su consiglio del professore - passa brillantemente l’esame. Vinterberg, regista sottovalutato e stroncato da molta critica, sbrigativamente legato all’antico Festen, fruga ancora nella memoria personale, esattamente come per La comune: «Mi ricordo quando, a sedici anni, ero nel giardino della comune dove vivevo, nel pieno della primavera, un po’ brillo dopo avere appena baciato la mia ragazza: un momento di felicità assoluta che non tornerà. Il film si lega a questo desiderio, a tornare a provare quella stessa leggerezza». Lo sceneggia col sodale Tobias Lindholm, un altro sottovalutato (peggio: misconosciuto), che ha appena mostrato la sua profondità di scrittura nella miniserie The Investigation, un giallo che non mostra mai la vittima né il sospettato: così come Druk è un film sull’alcool che non mostra mai la morale.
Come porsi dinanzi a questi personaggi, alle loro evoluzioni? È qui che il racconto schiera tutta la sua potenza: oscillando verso la descrizione degli eccessi alcolici, con gli effetti devastanti sulle vite, a un certo punto sembra sfiorare una posizione moralistica. Ma lo fa solo per smentirla, spiazzando doppiamente: quando l’esperimento viene archiviato, quando i personaggi subiscono un lutto e tornano nei ranghi, lontano dall’alcool e nel limbo della sobrietà, ecco il colpo di scena. La svolta si materializza sotto forma della danza dionisiaca di Mads Mikkelsen, splendidamente girata da Vinterbeg che lo segue con la cinepresa come lo pedinava ne Il sospetto, avvolgendolo nel dubbio della pedofilia: solo che qui è una certezza, il baccante Martin balla per se stesso, riafferma la propria libertà etica ed etilica, dunque umana. Eccolo il sogno di Kierkegaard: un sogno ebbro di felicità che si può sempre afferrare per un attimo alzando il bicchiere. A qualsiasi età. Così la parabola incubale di Wilder, le sue inquadrature mostruose del whisky e lo spettro della bottiglia, diventano qui giorni ritrovati. Vinterberg prende il moralismo e lo scioglie in un baccanale dionisiaco: bibo ergo sum.