La persona peggiore del mondo
Giunge in sala l'ultimo film del regista norvegese Joachim Trier, che dopo il thriller (Thelma) e il dramma internazionale (Louder than bombs), torna a Oslo per raccontare ciò a cui si sente più vicino, il bisogno dei giovani di aggrapparsi alla vita
Serviva tornare a Oslo, per stessa ammissione di Joachim Trier e probabilmente anche per quella implicita degli spettatori che hanno battuto i sentieri della sua filmografia (per un totale di 5 titoli in 15 anni). Non che la sua “prova all’internazionalizzazione” con Louder than bombs (in Italia giunto col triste titolo di Segreti di famiglia, ora disponibile su Mubi) non sia stata buona, tutt’altro; solo che il discorso su una geografia nota, aderente alle proprie perplessità ed emotività, luogo e oggetto delle proprie liturgie, eccetera, consegna spesso alle immagini una vista più partecipata, autentica. Sicuramente questo è anche il caso di Trier, che con La persona peggiore del mondo, in concorso a Cannes 74 e ora in sala, torna e forse chiude un trittico sulla ricerca angosciosa di senso da parte di una precisa categoria di destinatari, quella dei trentenni norvegesi.
Tanto nell’esordio, Reprise (2006, ora su Netflix), quanto in Oslo, August 31st (2011), Trier aveva concentrato questa tensione, un vero e proprio disturbo a vivere che piegava verso la morte nella figura mai conciliata del suo protagonista, un sempre splendido Anders Danielsen Lie. Le consonanze con l’ultimo titolo non sono poche e di certo non casuali, ma per tornare a centrare quella stessa meta della ricerca di un senso a vivere, Trier segue una traiettoria ora leggermente diversa: sceglie una forma simil letteraria, una struttura divisa in dodici capitoli (ancor più allungata da un prologo e un epilogo), che parte da un approccio da commedia, ironico, e scivola poi dentro una disillusione ottundente, apparentemente senza sbocco.
In La persona peggiore del mondo, Trier assume il punto di vista di Julie (interpretata da Renate Reinsve, premiata a Cannes col premio per la miglior attrice), una giovane donna che raggiunge i trent’anni senza aver compreso quale sia la propria strada: abbandona la medicina per la psicologia, la psicologia per la fotografia; e così fa pure con le relazioni, che piroettano attorno a lei in sequenze iniziali brevilinee e fresche, dal riso facile. Ma è pure evidente che questo non basti, perché per quanto questa freschezza suoni nuova dalle parti di Trier – con una Oslo meno raffreddata, anzi più calda nelle tonalità, spesso persino festosa e ubriaca –, alle spalle ombreggia costantemente una densità di motivi seriosi, di presagi oscuri che da sempre vivono nelle immagini di Trier, e che sgretolano la bella soluzione del coming-of-age per i trentenni di oggi.
Julie ricorda per tante ragioni i giovani non ancora adulti, la posizione precaria di chi si affaccia alla maturità secondo una traiettoria sbilenca, già stanca. Mancano garanzie là dove è necessario che ve ne siano: nello scegliere chi avere accanto quando la dimensione della famiglia tradizionale preme alle porte; e nel comprendere “cosa fare da grandi” (a priori e a posteriori, Julie non sa neppure se sia una persona “pratica” o “teorica”, per sua stessa ammissione). E quando la via maestra della maturità pare finalmente pararsi davanti a lei nella figura e nell’amore per Aksel (eccolo, Anders Danielsen Lie), Julie fugge ancora, disarciona un ruolo che crede le si debba cucire necessariamente addosso, e torna ad arguire con forza di libertà sessuale, di metoo, masturbazione e desiderio a reinventarsi (seppure snocciolati con certa facilità che sa un po’ di pasticcio).
A un certo punto, Trier rimette in moto la fantasia di Julie con un espediente magico, che funziona ed è bello, semplicemente, perché appartiene al dominio del cinema: premendo l’interruttore della luce (richiama, alla lontana, l’espediente usato da Dolan in Matthias & Maxime), Julie congela Aksel e tutta Oslo, congela la sua quotidianità responsabile e gli impedimenti, fugge per strada e si reca a baciare un altro giovane che esprime una novità, e che come ogni novità le fa credere di essersi innamorata daccapo. Così si diventa la persona peggiore del mondo. Julie lo sa, noi pure, perché con questa sensazione di malignità conviviamo quando sappiamo di procurare un gran dolore a chi ci sta accanto per amore, e persistiamo nonostante la nostra convinzione a “vivere liberamente” ci appaia lentamente sempre più un capriccio ingiustificato.
Ma dicevamo della figura di Anders Danielsen Lie, l’amato e respinto Aksel. Nonostante il protagonismo di Julie, Trier torna sempre al corpo e allo sguardo del suo attore, suo culto e suo morbo. Le conseguenze delle azioni di Julie si riversano su di lui con un peso che eccede di molto la sofferenza della separazione. Aksel è il primo dei personaggi di Trier interpretati da Danielsen Lie ad anelare con forza la vita, amando Julie, vivendo con lei nel suo vecchio appartamento, facendo sesso sul tappeto e disegnando fumetti sessisti che gli donano la fama. Eppure Trier lo avvicina, per la terza volta (dopo Reprise e Oslo, August 31st), a un abisso. Nel suo sguardo si concentrano sempre i presagi più oscuri, che moltiplicano le colpe (meglio, il senso di colpa) di Julie, i momenti di stasi, i ritorni della Oslo silente e geometrica, e ridestano l’impossibilità delle immagini del regista norvegese a guardare altrove.
È senza dubbio nobile che Trier ricerchi continuamente un senso e la pulsione a vivere, ma La persona peggiore del mondo finisce per soffrire di questa responsabilità, tutta densificata nel secondo blocco, e forse non basta più neanche affidarsi alla vista di un’alba luminosa (come accadeva in Oslo, August 31st), una facile sequenza che per tradizione tenta di guardare la vita negli occhi, per sopperire alla stanchezza e alle paturnie eccessive della morte.