Oslo, August 31st
Per Joachim Trier, Oslo è sempre il luogo di percorsi compromessi, desideri inesplosi, bivi esistenziali, soprattutto in questo titolo, cuore impressionista del grande mondo emotivo dell'autore danese.
Di quella sorta di trilogia costruita da Joachim Trier dentro e per Oslo, Oslo 31st August è il centro. Nel senso che sta nel mezzo, tra l’esordio di Reprise (2006) e l’ultimo La persona peggiore del mondo (2021), e soprattutto perché della città recupera il nome, lo dispone in evidenza già nel titolo, accanto a una data: la città nella specificità di ventiquattr’ore, e un solo corpo a provare ad aderirvi e attraversarla. Di più, quel corpo è lo stesso che percorre tutti e tre i titoli, con leggeri o più marcati spostamenti di baricentro dall’uno all’altro che però non ne intaccano la centralità. Anzi, guardando prospetticamente al quadro generale, dei tre bivi emotivi messi in scena, tutti tra loro vicinissimi se non quasi identici, Oslo 31st August predilige un isolamento pressocchè totale del personaggio di Anders Danielsen Lie, il suo primo piano e il suo pedinamento, lo dispone quindi ben più in rilievo; dove invece in Reprise era affiancato a un suo “pari” (il miglior amico, come lui aspirante scrittore ma più abile) e in La persona peggiore del mondo viveva in una zona d’ombra, pronto a trascinare nell’abisso con sé la protagonista Renate Reinsveen.
Anders Danielsen Lie interpreta un 34enne in cerca di una ripresa dopo un lungo processo di disintossicazione. In vista di un colloquio di lavoro che potrebbe garantirgli l’ultimo salto, il pieno reintegro nella società, gli viene concesso di tornare in città, a Oslo, dove pure potrà dedicare del tempo a rincontrare i suoi cari. Anders ritrova il migliore amico, ora sposato e con una figlia. Ascolta i suoi aneddoti di vita ormai fuori da ogni clamore, tra il tentativo di partecipazione a eventi mondani con la moglie e la decisione finale di passare la sera davanti alla console giocando a Battlefield, culmine di un nuovo regime di vita a fuoco lento. Anders non dice all’amico che poco prima quella stessa mattina ha provato a togliersi la vita, rinunciandovi soltanto un attimo prima. Lo accompagna però con le parole, incespicando tra queste, prova a suggerirgli indirettamente che non ne può più, che il suo è un fallimento su vasta scala: un tossico incapace di cavarsi fuori per tempo dalle dipendenze; progetti accademici e amori buttati alle ortiche. E mentre incespica tra queste parole, perde terreno, fiducia, perché ravanando dentro di sé non sa più mettere a fuoco (come la mdp nei frequenti primi piani), non è più in grado di produrre senso e comunicarlo con la parola e lo sguardo all’altro.
Quello di Anders è un danno allora esiziale, non ha compromessi e soluzioni. Auto-sabota il proprio colloquio con un importante editore, bacia la propria ex, ora sposata, a una festa a cui non era invitato, e si svilisce della propria incapacità di replicare alle battute dei compagni. Ciò che lui non sa più dire, perché rotto, compromesso, lo cerca quindi attorno a sé, nel momento forse apicale del film. Seduto in solitaria in un bar, Anders guarda gli altri, coglie smorfie, visualizza corpi oltre la strada che procedono a passo spedito immaginandoli poi seduti da soli a contemplare un fallimento simile al suo, ma soprattutto origlia suoni, discorsi, in particolare una lista di desideri su cui due donne si confrontano. Servono le parole per dar forma a un desiderio, nella vita come al cinema, quando mancano le immagini per sostenerlo o crearlo da zero. Ovvio che la scena sia ricreata sul modello che ha ispirato l’intero film, Il fuoco fatuo di Malle (quindi il romanzo omonimo di Pierre Drieu La Rachelle), con la lenta discesa agli inferi dell’Alain di Maurice Ronet e la medesima scena del confronto-conforto origliando le parole degli altri, ma si potrebbe tornare a un altro classico francese. Anche Varda fa scrutare e origliare la sua Cleo verso i tavoli degli altri, dotando il paesaggio acusmatico di centralità mentre le immagini catturano la vita all’interno del locale. E anche lì, soprattutto, c’è un confronto irriducibile con la morte che diventa motivo di attesa (quella di un responso medico). Varda le dava corpo sostanziandola in una camminata, nel pedinamento costante e nelle carrellate, nel movimento lungo la città e nella sfilata degli incontri.
Trier plasma la sua Oslo con la stessa sostanza, con la tridimensionalità di un luogo che si genera nella durata, dove il plot è esile, respinto (al contrario della struttura in capitoli de La persona peggiore del mondo), l'attesa la medesima, e il profumo e la qualità sono da quadro impressionista. Specie quando l’incontro con una ragazza risolletica la curiosità di Anders, riesuma un prurito a vivere, coi due che viaggiano in bicicletta avvinghiati l’uno all’altra in una Oslo silente, notturna, e le luci dell’alba ne allietano l’aria umbratile, anche solo per un attimo. Ma tanto basta perché la vita rappresa e il dolore del bivio cari a Trier attecchiscano rendendo conto di sé, pungano senza far male, facendo del danese uno degli autori migliori della sua generazione.