A Quiet Place 2
Un pamphlet lucido e coraggioso con cui Krasinski applica il suo sguardo essenziale e demistificante alle logiche della Franchise Age, con un nuovo tipo di cinema pop che prova a ricostruire il rapporto emotivo tra film e spettatore.
Si discute ancora troppo poco dell’importanza teorica di A Quiet Place. Il film di John Krasinski portò infatti all’attenzione del pubblico l’essenza della percezione sensoriale in una società saturata dal digitale. Attraverso un attento lavoro sul sonoro e una precisa costruzione dell’immagine, A Quiet Place si rivelò un solido saggio sul sentire e sul vedere perfettamente inserito nella corrente teorica del “ritorno all’analogico” che coinvolgeva tanto il film di Krasinski quanto i saggi di Damon Krukowski e David Sax. Finora, tuttavia, uno spunto di riflessione del genere, pur nella sua pregnanza, non era ancora riuscito a farsi effettiva pratica artistica. A Quiet Place 2 è dunque il prosieguo di un discorso interrotto, un film in perfetto equilibrio tra il concettuale e il militante, pronto a tracciare la via, a far dialogare quello spunto legato alla percezione sensibile con il sistema del cinema popolare.
Per farlo Krasinski torna all’immagine e allarga il suo raggio d’azione, libera la sostanza dal fotogramma e la lascia libera di agire sul sistema del racconto. E se dunque le immagini di A Quiet Place 2 sono entità ai limiti del biologico, capaci di modificare il contesto in cui proliferano, è emblematico che il film inizi al Day 497 dall’inizio dell’invasione, quasi a voler sottolineare quanto il mondo in cui si ambienta questo sequel sia profondamente cambiato rispetto al primo film, colonizzato, oltre che dagli alieni, anche da quell’essenzialità, da quella concretezza, insite nella messa in scena, che ora hanno eroso tanto i meccanismi del film quanto quelli del cinema commerciale a cui appartiene. L’azione dentro al quadro è dunque il punto di partenza di un processo analitico e riflessivo più profondo e ambizioso, vicino all’approccio pressoché tecno-classico di Michael Bay, il cui cinema da sempre ragiona per immagini pure e riflette sulla fragilità delle strutture della Franchise-Age. È proprio a Bay che Krasinski guarda nel magnifico prologo di questo secondo capitolo, ambientato nel Day One dell’invasione, una sequenza che raccoglie i maggiori input del cinema pop contemporaneo, dalle narrazioni ramificate alla psicologia complessa dei personaggi, passando, ovviamente, per quella gamification ben evidenziata dalla citazione all’opening di The Last Of Us. Si tratta però dell’ultimo barlume non solo di un mondo ma anche di un cinema “canonico”, quasi 500 giorni dopo è tutto finito. Dai detriti emerge un film che, nutrito dal minimalismo sistemico della regia e desideroso di essere il prototipo di un nuovo cinema pop, si sviluppa a partire da una sorta di grado zero di quel cinema: il movimento.
A Quiet Place 2 è dunque un prodotto tanto affascinante quanto schizofrenico, che guarda al futuro ma parla con l’essenzialità del cinema classico, si rivolge alle platee contemporanee ma impietosamente pone in scacco le strutture portanti della Franchise Age. Nei suoi momenti migliori è un pamphlet demistificatorio e straniante che mostra tutti i limiti delle narrazioni serializzate centrali nel cinema contemporaneo: la componente di world building è ingolfata, gli alieni non hanno identità o background, e ciò che si vede è costruito a partire dal recupero di materiali altri, provenienti da un immaginario sci-fi preesistente. Allo stesso tempo la narrazione disinnesca la forza dei sempre più presenti racconti multi strand in una storyline retta da tre essenziali linee, che vedono Regan incamminarsi verso l’ultimo rifugio sicuro dell’umanità insieme al vecchio amico di suo padre Emmett, mentre la madre Evelyn va in cerca di scorte medicinali per curare il figlio Marcus, impegnato a proteggere il fratello neonato e che, ferito, prova a resistere all’agguato di un alieno nel nuovo rifugio della famiglia. Anche il tradizionale topos del viaggio si atrofizza dunque in una narrazione che rende gli spostamenti quasi istantanei e che, paradossalmente, anche nei momenti più dinamici, preferisce rinchiudere i personaggi in spazi anonimi e claustrofobici, piuttosto che lasciarli liberi di agire nei tradizionali ambienti ariosi del cinema post apocalittico.
A contatto con questo sistema, Krasinski diventa una versione sghemba e quasi parodica di un’entità a metà tra lo showrunner e l’executive: gioca costantemente con lo spettatore, si diverte a metterlo a disagio, a costringerlo a seguire le complesse regole di una narrazione all’apparenza respingente, ma al contempo è pronto a violare lo stesso playbook che si è imposto se ciò gli permette di girare una sequenza suggestiva o particolarmente d’impatto. Non deve stupire, dunque, se alla fine, A Quiet Place 2 sia una sorta di film museale, che cattura personaggi in cammino, colti a osservare immagini inerti di un cinema ormai quasi in putrefazione: la strada piena di auto ferme come in The Road, il treno deragliato, addirittura la farmacia già incontrata nel primo film. Per ripartire, forse, bisogna affidarci ad altre immagini, inscindibili dai gesti dei singoli personaggi, come il revolver estratto da Evelyn o il palo conficcato da Regan nella testa del Mostro sul finale. A Quiet Place 2 pur nel suo essere a tratti strabordante, ha in sé l’incoscienza di mostrare il ricorsivo ed impersonale gioco di specchi del cinema popolare. Che Krasinski abbia ragione o meno, è indubbio che le sue siano argomentazioni particolarmente lucide.
Come in un complesso numero di magia, il film riduce la Franchise Age ai minimi termini e spiazza con intelligenza lo spettatore facendolo confrontare con un racconto che è avvincente anche se fondato su un approccio minimale e sulla sola messa in scena più che su una sintassi massimalista. Krasinski non solo dimostra la straordinaria resistenza dei topos del cinema classico ma ricostruisce soprattutto attraverso di essi il rapporto emotivo tra spettatore e personaggio. Se ci sarà un tratto attraverso cui ripensare il cinema commerciale, A Quiet Place 2 punta tutto sull’empatia, sulla condivisione del carico emotivo tra chi osserva la scena e chi agisce in essa. Basta questo per rimanere avvinti dalle immagini, basta entrare in contatto profondo con chi impugna la pistola al di là del quadro, per trasformare quella pistola in una sorta di punctum Barthesiano. In fondo il cinema è tutto lì.