Honey Boy
Shia LaBeouf si confronta con i fantasmi della propria infanzia in un film fortemente autobiografico, arroccato sull’estetica indie più convenzionale e preconfezionata ma comunque sincero, vitale, emozionante.
Amare ma non essere in grado di vivere il proprio amore. Darsi, sacrificarsi, eppure continuamente cedere, perdere di fronte la rabbia, il risentimento, il dolore che non conosce argine e cerca piuttosto di propagarsi, spezzare tutt’attorno, moltiplicarsi come un’entità vampiresca che propaga l’abuso. Ci sono figure personali che falliscono e continuano a fallire, persone chiamate dalla vita a ricoprire un ruolo che non riesce a determinarle, educarle, e che anzi in quello spazio trovano un luogo di contaminazione che rischia di alimentare un effetto domino, un passaggio inter-generazionale di disfunzionalità e sofferenza. Perché anche il dolore necessita dei suoi anticorpi, globuli bianchi ed enzimi vitali che assorbiamo crescendo e ci aiutano a vivere, a gestire le difficoltà della vita.
Cronaca vuole che a una baby star come Shia LaBeouf, divo dello show business Disney già a dodici anni, questo passaggio sia mancato, sostituito da un’infanzia e adolescenza condivise con un padre violento ed ex tossico, innamorato certo di suo figlio ma incapace di dare spazio a quell’amore. Da quest’esperienza il giovane Shia esce sulla cresta dell’onda mediatica, volto di blockbuster di grido ma anche persona spezzata, traumatizzata, sola in un’alienante routine cinematografica e afflitta da quello che, giunto il capolinea del centro di riabilitazione, viene definito senza mezzi termini disturbo da stress post-traumatico. Da quest’esperienza di rehab, pausa forzata imposta dalla giustizia americana ma anche inizio di uno scavo interiore non più rimandabile, LaBeouf ricava la forza per confrontarsi con il passato e dare forma di sceneggiatura al suo dolore, ai ricordi e ai traumi, all’amore dato, ricevuto, sprecato, portando lo strumento del cinema al massimo livello di introspezione. Honey Boy non è altro che questo, un processo di autoanalisi per dare forma al dolore e sviluppare da sé un sistema immunitario atto a gestirlo; LaBeouf scrive la sua storia e impersona suo padre, cercando negli strumenti immedesimanti della recitazione quel contatto che prima mancava.
Gioca a carte scoperte LaBeouf, strutturando il suo Honey Boy su due piani temporali. Il primo, più vicino a noi, nasce da un momento di rottura: il doppio adulto di LaBeouf (ribattezzato Otis Lort e impersonato da Lucas Hedges) è un attore di blockbuster costretto dal tribunale ad andare in clinica, dove inizia un percorso che apre le porte della memoria e prende forma di progetto cinematografico; il secondo, in flashback, è il farsi di quel film immaginato e la ricostruzione del periodo più buio vissuto dal piccolo Otis assieme a suo padre, un campo minato di esperienze limite in cui il protagonista deve confrontarsi con le mancanze, gli eccessi e la violenza (fisica e psicologica) di una figura paterna che tenta ma continuamente fallisce.
Sa emozionare e coinvolgere Honey Boy, opera a cuore aperto che nasce da un’esigenza personale ma riesce a parlare una lingua universale, evocando sentimenti intimi e assieme collettivi insiti nel rapporto padre-figlio. La vita di Otis da piccolo – incarnato da Noah Jupe, sorprendente e vera acqua della vita del film – è un costellarsi di promesse strappate e mai mantenute, dolcezze mancate o scoperte in posti inaspettati, come la breve, intima parentesi con l’anonima vicina di casa impersonata da FKA Twigs. LaBeouf, che si occupa in solitaria della sceneggiatura mentre affida la regia all’amica e autrice di video-arte Alma Har'el, cerca di dosare l’evocazione della sofferenza e la necessità di aprirsi alla grazia, alla bellezza ricercata dal piccolo Otis, ma il film non sempre trova l’equilibrio necessario a rendere giustizia a entrambi gli sguardi in gioco, come se – e in fondo giustamente – l’evocazione del passato personale fosse una pulsazione irregolare troppo dolorosa mentre il punto di vista del padre di Otis conservi una cifra di intimità insondabile, inconoscibile. Ma a pesare soprattutto sul film, e sul suo potenziale di racconto sincero e disarmante, è il fatto che il suo tessuto visivo sia impregnato di un’estetica indie preconfezionata e già testata a tavolino, come se la materia narrata fosse un magma talmente incandescente da necessitare un inquadramento stilistico il più possibile riconoscibile, rassicurante. Tuttavia il discorso portato avanti da LaBeouf è chiaro, e prende di petto le questioni dell’abuso e della dipendenza senza spettacolarizzare mai il dolore: a un certo della propria vita si arriva a un bivio, in cui o si iniziano ad affrontare i propri demoni interiori o si soccombe a essi, perdendo in umanità ed empatia un tassello alla volta. In questo senso appare inevitabile, per quanto meccanicistica, la scelta da parte dell’attore di calarsi nei panni di suo padre, portando al limite questo strumento cinematografico di rievocazione e superamento del trauma con il quale tentare di spezzare l’eterno ritorno. Il risultato è un dialogo che concilia necessità personali e cinematografiche, comunica con il suo pubblico e parla in modo sincero la lingua dell’infanzia. Al netto di tutto, non è poco per un confronto con i propri fantasmi.